giovedì, luglio 17, 2008








VEDERE E GUARDARE







Se ci interroghiamo sulla differenza tra il vedere e il guardare, siamo spesso portati dal linguaggio comune ad associare il vedere alla superficialità, alla “prima occhiata”, un evento che coinvolge solo gli occhi e non la mente, attribuendo invece al guardare una valenza di comprensione più profonda rispetto a ciò che ci sta davanti, un processo che coinvolge occhio, mente e cuore.
Ma davvero è così?
Il nostro lavoro con persone normodotate e con difficoltà visive ci ha indotto a rivalutare il vedere.

Guardare presuppone il pensiero, in un processo che inizia dall’input visivo, per poi proseguire con l’elaborazione da parte di mente, cervello e cuore.
Il nostro bagaglio esperienziale, la nostra individualità, sono un filtro importante, suscettibile di rielaborare lo stimolo iniziale, insieme all’ambiente che ci circonda e di cui siamo permeati.

E vedere? Vedere è mera ricezione dello stimolo visivo?

Vedere.
Aprire gli occhi. Come un’esplosione:
il primo raggio di sole al mattino,
il colore delle foglie secche, l
e gocce di pioggia.

Vedere la luce, l’aria, il colore.


Vedere il mare per la prima volta,
vedere il David di Michelangelo nella sua magnificenza,
vedere l’ultimo attimo della propria vita.
Vedere e stupirsi.

Come un tuffo al cuore.
Emozionarsi, rimanere lì a bocca aperta.
Eccolo, l’attimo creativo.
Ecco IL momento della vita, quello che mai più si potrà ripetere. Mai luce sarà uguale alla prima luce di quell’attimo. Mai emozione sarà uguale, di fronte ad una cosa che viene vista per la seconda volta.

Permettetemi una metafora: il vedere passa dall’occhio al cuore. Diretto, senza il filtro del cervello, donando uno stupore istantaneo.
Il vedere non genera opinione.

Pensiamo ad un ambito noto a tutti: il cinema. Il grande cine-occhio vede o guarda? Riporta o traduce? E lo spettatore, vede o guarda? Qual è la via migliore?
Ovviamente non intendiamo negare l’evidenza del coinvolgimento del cervello nella percezione visiva, solo sottolineare la differenza., sia come attività che come impatto emotivo, tra uno sguardo “che vede” e uno sguardo “che guarda”.

Immaginiamo di vedere un film. Prima di guardare, soffermiamoci a vedere, a gustare la bellezza delle immagini per quello che sono.
Ecco lo sguardo “puro”, non condizionato dal pensiero che fa associare le immagini non a ciò che sono ma soprattutto a ciò che significano. Lo sguardo puro è quello che apprezza immagine, fotografia, luce e colore.

Guardiamo il cinema, come fecero gli spettatori del film dei fratelli Lumière nel 1896, che fuggirono addirittura dalla sala, credendo che la locomotiva proiettata fosse vera. Questo è un attimo creativo.

Rivalutiamo l’occhio, non a discapito della mente, ma a favore dello stupore e dell’emozione.

Cosa succede quando si lavora con la disabilità visiva? Bisogna per forza rinunciare allo stupore del vedere per concentrarsi soprattutto sul processo del guardare?

AMIDEVI è un’associazione nata proprio da quesiti come questo, dalla necessità di non dichiarare a priori che al mondo della disabilità visiva fossero precluse determinate esperienze, dal desiderio di cercare strade diverse, differenti percorsi per arrivare piuttosto a riformulare gli interrogativi di partenza.
In quanti modi diversi si può esperire il vedere?
Come può un non vedente assaporare le stesse emozioni del nostro “vedere per la prima volta”?

Per intraprendere un percorso di questo tipo, ci siamo spesso interrogati su come i non vedenti percepiscono e rielaborano gli stimoli. Per poter lavorare sul vedere di chi non vede con gli occhi, insomma, abbiamo dovuto cercare di capire COME si possa vedere con le mani.
Ecco da dove nasce l’esigenza della mediazione, dalla necessità di rendere accessibile un mondo prevalentemente visivo a chi non usa la vista. In sintesi, la necessità di mediare tra il vedere e il non vedere.

Ecco che il vedere diventa cogliere, assaporare tante e varie fonti di esperienza, per arricchirsi, per esplorare, per conoscere, per ampliare i propri orizzonti.
Il percorso di formazione dei disabili della vista sovente soffre della limitatezza di tali orizzonti, vedendo le figure coinvolte troppo spesso rinunciatarie rispetto a numerosissimi input.
Ecco allora che sulla disabilità si innesta l’handicap, inteso come l’insieme di barriere che la società pone a priori al soggetto disabile in quanto tale.
Secondo noi, è invece la società stessa a dimostrare tutta la propria disabilità, nel momento in cui non cerca di far fronte ai limiti esistenti con una flessibilità di strategie.

AMIDEVI, nei suoi 10 anni di attività, non ha la presunzione di aver inventato nulla, ma di aver raccolto esperienze e strumenti, in una sinergia volta alla ricerca di nuove strade.
Il mondo del deficit visivo è tanto variegato quanto complesso, rendendo indispensabile la personalizzazione dei percorsi.
Ogni individuo è, proprio in quanto tale, unico ed irripetibile, va cioè colto nella propria specificità, rapportata alle caratteristiche del suo ambiente di provenienza.
Ad esempio, nel caso di Shruthi, con una grave ipovisione monoculare, adottata in India all’età di 4 anni, con un passato sconosciuto, che in ogni caso non sarebbe stata in grado di raccontare, i dati oggettivi di partenza erano proprio la disabilità visiva e la mancanza di un percorso conosciuto che costituisse un terreno comune utile ad instaurare comunicazione e condivisione all’interno della nuova famiglia e del nuovo ambiente.

La strategia di mediazione è stata chiedersi quali stimoli, nel suo paese natale, fossero stati preponderanti, sia nello sfruttare il suo residuo visivo che, di conseguenza, nello stimolarne i processi cognitivi.
La scelta è stata puntare, paradossalmente, sull’uso del colore, in assoluto contrasto con una patologia conclamata che prevede, tra le altre caratteristiche, l’acromatismo.
Il colore è diventato l’elemento preponderante nell’arredamento, nell’abbigliamento, nella scelta degli oggetti e degli alimenti, è entrato a far parte delle fiabe e del dialogo quotidiano, per essere trasferito poi alle attività più strettamente cognitive. Va precisato che, contro ogni diagnosi, Shruthi ha ben presto dimostrato di percepire non solo il colore, ma un’ampia gamma di sfumature.

Ecco allora che per ogni lettera dell’alfabeto è nata una fiaba,




in cui ciascuna lettera si è vestita di un colore diverso: ciò ha reso possibile, a fronte di una visione che rendeva impossibile una percezione chiara delle lettere stesse, costruirne un’immagine mentale sempre più precisa. Dalle fiabe si è passati così alla lettura e alla scrittura.


Ben presto ci si è però scontrati con le richieste dell’ambiente scolastico, con consegne del tipo “Descrivi ciò che vedi dalla finestra”.
Shruthi, consapevole dei propri limiti, ha suscitato una reazione irata da parte della maestra rispondendo “Nulla”. La maestra ha iniziato a descriverle il paesaggio fuori dalla finestra. Shruthi allora ha asserito “Cambiamo la consegna. Descrivo quello che la maestra vede fuori dalla finestra”.
Alla fine, insieme, abbiamo ricostruito tridimensionalmente ciò che Shruthi avrebbe dovuto vedere fuori dalla finestra, per permetterle di descriverlo, eseguendo la consegna.
Ove possibile, un’esperienza multisensoriale è servita ad arricchire l’immagine mentale degli oggetti.


Ovviamente non è stato possibile procedere così per ogni situazione in cui Shruthi doveva crearsi immagini di oggetti o ambienti che non le erano direttamente percepibili. Ancora una volta il criterio usato è stato quello del colore: la gamma dei verdi, ad esempio, è servita a differenziare le varie tipologie di alberi e ad acquisire come le chiome differissero nella forma e nella dimensione.

Un altro scoglio importante è stato lo studio della storia. Come tutte le persone con un passato difficile, Shruthi aveva grosse difficoltà ad andare a ritroso nel tempo. Ancora una volta immagini e colore sono stati i canali vincenti: per studiare Napoleone, ad esempio, si è scelta l’immagine iconografica classica dell’imperatore francese, collegata tramite frecce di diverso colore ai dati storici fondamentali da memorizzare.
Il dubbio rimaneva: si temeva che questi espedienti fossero solo superficialmente efficaci, ma che non fossero realmente suscettibili di stimolare l’elaborazione delle informazioni da parte di Shruthi. In seguito alla somministrazione dell’LPAD, tuttavia, si è riscontrato che gli schemi a blocchi colorati, che evidenziano i passaggi logici tra le singole parti, costituiscono effettivamente il materiale di studio più efficace per lei.

Un’altra delle attività di AMIDEVI , per le quali è diventata ormai conosciuta nel territorio, è il teatro, con un gruppo formato da ragazzi normodotati e con minorazione visiva.
Il teatro è forma di intrattenimento, di crescita, di aggregazione, di integrazione, ma soprattutto di intervento mediato mirato e personalizzato, volto al superamento di alcune barriere tipiche della disabilità sensoriale.
Infatti, grazie al supporto del personale specializzato e alla predisposizione di sussidi ad hoc, è stato possibile costruire un percorso individualizzato per i singoli “attori” al fine di realizzare un prodotto, come la rappresentazione finale, che creasse un clima di serenità tra i ragazzi, favorendo il superamento di alcuni vincoli che la disabilità può generare nel momento in cui ci si confronta con il mondo dei normodotati.
Una delle difficoltà principali per i non vedenti era la danza, il movimento a ritmo di musica. Abbiamo usato il metodo del Touch and Feel dell’Accademia Shree Ramana Maharishi di Bangalore: toccando il corpo dell’insegnante, il non vedente ne percepisce e memorizza il movimento.
Nel nostro laboratorio teatrale, dunque, i ragazzi normodotati hanno svolto la funzione di mediatori con i coetanei non vedenti, permettendo anche a loro di trarre piacere dal movimento a ritmo di musica. In questo caso, l’esperienza ha raggiunto il doppio obiettivo di permettere ai ragazzi disabili di danzare e di fornire ad entrambi un’esperienza condivisa, permettendo scambio e integrazione.

Un altro percorso importante per AMIDEVI è stato quello con Mirko: fino all’età di circa 5 anni è vissuto all’interno di una tenda ad ossigeno, alimentato grazie ad un sondino. Ha mosso i primi passi a 7 anni. Quando l’abbiamo conosciuto ne aveva 10, mangiava esclusivamente omogeneizzati, frequentava una struttura giornaliera, non era scolarizzato e aveva grosse difficoltà di comunicazione. L’ipotesi prevalente era che gli fosse precluso il percorso scolastico e purtroppo anche quello sociale. Secondo gli esperti non sarebbe mai stato in grado di leggere e scrivere, non avrebbe avuto un’autonomia personale. La sua grande passione per la musica, inoltre, costituiva agli occhi degli esperti una semplice passione, del tutto fine a sé stessa.
Uno dei primi passi è stato quello di spostare Mirko dalla struttura giornaliera ed inserito in 4^ elementare: aveva 11 anni e mancava di tutti i pre-requisiti che tutti i bambini dovrebbero avere.
È stato affiancato da un’insegnante di sostegno e da una mediatrice alla comunicazione, iniziando un percorso lungo, complesso, a volte difficile. L’unico canale per lavorare con lui era la musica, proprio quella passione che non doveva portarlo a nulla. E dalla musica siamo partiti.
Lentamente Mirko ha iniziato a riprendersi parte di quelle esperienze che era suo diritto fare. E a capire che poteva scegliere. L’abbiamo inserito in un laboratorio teatrale, con altri ragazzi minorati della vista e normodotati. Mirko riproduceva ad orecchio per noi qualsiasi melodia, mentre aveva grossi problemi a recitare anche una piccolissima parte.
Scoglio del suo percorso è stata la lettura in braille. Nei primi 2 anni Mirko ha seguito un percorso fatto per stimolare le sue mani e fare in modo che potessero percepire la scrittura braille, ma, se da un lato lo ha reso più autonomo, non lo ha però portato alla discriminazione delle scrittura. È stata sollevata l’ipotesi che fossero presenti danni cerebrali che gli impedissero di crearsi l’immagine mentale della posizione dei punti braille, possibilità subito esclusa in seguito ad una tac e una successiva risonanza magnetica. Partendo dunque dalla constatazione che nulla vietava a Mirko di essere come tutti i suoi coetanei, abbiamo cominciato con la stimolazione tattile, cosa che non accadeva normalmente, nemmeno per svolgere le azioni quotidiane, usando anche fogli con lettere in braille o realizzate con piccoli feltrino. Successivamente si è utilizzato il materiale di Passo Passo, contenente gli esercizi necessari a sviluppare sia la percezione tattile sia delle lettere che delle immagini.
Se da un lato tutto questo lavoro ha portato Mirko ad essere più autonomo sia dal punto di vista personale che nell’ambito puramente didattico, non lo ha però portato a leggere il braille.
Quando siamo venuti a conoscenza dell’esistenza del mouse tattile VTPlayer, abbiamo subito provato con Mirko, senza pensare quale miracolo sarebbe potuto accadere solo in pochi giorni.

Era fine luglio 2006 e dopo aver dato qualche indicazione a Mirko su come funzionava il mouse, ha voluto continuare in assoluta autonomia dimostrandosi oltretutto ampiamente soddisfatto perché finalmente anche lui, come gli altri ragazzi, poteva utilizzare il computer.
Forse nemmeno Mirko si era reso conto di quello che era accaduto e di quanto i puntini del mouse tattile che si alzavano, si abbassavano indicando destra – sinistra – alto – basso, avessero stimolato le sue mani e la sua mente.
Oggi Mirko, non è più un analfabeta, recita con grande bravura e piacere, frequenta il primo anno di scuola media superiore. Forse, ora che ha imparato a leggere, ha qualche possibilità in più per realizzare il suo sogno: frequentare il conservatorio.
Inserire parte finale Mirko definitivo da min 5.22 a 8.05

SPERIMENTAZIONE
Tanti anni di lavoro con bambini e ragazzi che non possono vedere con gli occhi ci hanno portati a cercare una casa dove potessero disporre di un ambiente familiare, accogliente e colorato, circondato da un piacevole giardino, dove i ragazzi potessero toccare, annusare, esplorare, dove fossero, in sostanza, circondati da tutti gli elementi che potessero aiutarli a costruirsi delle immagini mentali.
Così è nata S.Ph.e.R.A. onlus



Immaginare una scena è un po' come assistervi davvero. Questa affermazione richiama la straordinaria capacità del nostro cervello di creare rappresentazioni mentali in grado di riprodurre sostanzialmente la sensazione di vedere qualcosa con gli occhi. Possiamo guardare un film alla tv o seguire un «filmato» che appare solo nel nostro cervello.

Ed è proprio in quest’ottica che si è inserita la nostra esperienza con gli strumenti del Feuerstein Basic: lavorare con le immagini mentali delle persone con deficit visivo, per costruire un terreno comune, per capire come si può vedere con le mani e confrontarlo al veder con gli occhi, per avere uno strumento in più per comunicare, per fare esperienza ma anche per integrare due mondi diversi ma non irrimediabilmente lontani.

Tommaso Vecchi, professore di Psicologia Sperimentale all'Università di Pavia, usa in questo ambito il termine “imagery”, proprio nel senso di rappresentare la realtà attraverso le immagini mentali. Recenti ricerche effettuate dal prof. Vecchi e dalla sua equipe, hanno dimostrato come i non vedenti siano in grado di rappresentarsi mentalmente la realtà, giungendo pertanto ad affermare che la vista non è una condizione necessaria per tale capacità. Vedere con gli occhi e vedere con la mente, insomma, benché siano esperienze all’apparenza simili, si basano in realtà su meccanismi cerebrali diversi.
Anche i non vedenti si creano immagini mentali e, per quanto possa apparire sorprendente, le rappresentano “a colori”.

Uno dei laboratori proposti ai nostri ragazzi ad esempio, prevedeva di riprodurre “La poltrona rossa” di Picasso.
Utilizzando la stessa spiegazione, ogni partecipante ha usufruito di supporti diversi: fotocopie a colori per i normodotati, fotocopie ingrandite per gli ipovedenti, disegni a rilievo per i non vedenti. In quest’ultimo caso, in particolare, gli spazi sono stati riempiti con rilievi differenziati a seconda del colore da usare, seguendo il modello.
Questo laboratorio ci ha permesso di avvicinare anche i non vedenti all’esperienza del disegno, così importante per tutti i nostri bambini. Anche in questo caso, la mediazione è stata fondamentale e i risultati ottenuti sfatano, almeno secondo il nostro punti di vista, la convinzione che per applicare il metodo Feuerstein sia necessario saper usare un foglio e una matita.

La cecità, in ogni caso, sembra determinare alcune specifiche limitazioni nella capacità di crearsi rappresentazioni mentali del mondo: più cresce la complessità dell’immagine, più per il non vedente si allungano i tempi necessari al processo di elaborazione. Inoltre per una persona cieca è necessario poter manipolare attivamente. Secondo alcuni ricercatori, questi limiti vanno ricondotti alla mancanza di strategie adeguate a compensare il deficit visivo.
Per completare il quadro della situazione bisogna inoltre tener presente che vedenti e non vedenti utilizzano modalità diverse per esplorare la realtà: tattile e quindi sequenziale per un cieco, principalmente visiva, quindi globale per un vedente.
Anche i dati ricavati dalla neuroimmagine funzionale hanno dimostrato che ciechi e vedenti utilizzano le stesse strutture cerebrali quando sono impegnati a generare ed elaborare delle immagini mentali , ad esempio per seguire mentalmente un percorso.
Se quindi le maggiori difficoltà nei soggetti non vedenti sono, secondo i dati delle ricerche condotte dall’Università di Pavia, non imputabili a carenze oggettive ma ad una mancanza di strategie, come aiutarli a costruirle?
Questo è stato, in sostanza, il nostro interrogativo di partenza.

Per poter elaborare un adattamento tattile efficace degli strumenti grafici, abbiamo dovuto innanzitutto chiederci che criteri adottare per il disegno. Seguendo le linee guida contenute in “Disegnare per le mani” di F. Levi e R. Rolli, i disegni hanno rispettato i seguenti standard:
- semplificare l’immagine per evitare informazioni inutili e ridondanti;
- oggetti e persone identificati da elementi salienti che si ripetono sempre uguali per lo stesso oggetto;
- eliminazione della prospettiva perché non significativa al tatto;
- accostamento degli elementi in modo tale da permettere la comprensione delle proporzioni degli oggetti gli uni rispetto agli altri;
- evitare la sovrapposizione tra oggetti in quanto non comprensibile al tatto.


TRI-CHANNEL
Iniziare con il Tri-channel, dal punto di vista del disegno, è stato relativamente semplice e ci ha permesso di entrare in modo graduale nell’ottica del disegno realizzato per le mani. La componente visiva, infatti, è estremamente ridotta rispetto agli altri strumenti, fatta eccezione per la copertina.
Tale strumento inoltre richiede di percepire un oggetto in modo sequenziale utilizzando la modalità aptica attraverso la quale si può conoscere un oggetto attivando operazioni mentali che rendono la conoscenza più profonda e duratura.
In questo caso, infatti, le osservazioni principali nate dalla sperimentazione riguardano la rappresentazione della mano e dell’occhio. La percezione si presenta come completamente differente a seconda che l’esplorazione sia effettuata da un destro o da un mancino, in quanto la sovrapposizione della mano con il disegno è possibile solo se si tratta della medesima. Abbiamo provveduto quindi a realizzare due copertine, una rappresentante la mano destra, l’altra la sinistra.
Per quanto riguarda l’occhio, invece, abbiamo dovuto aumentare la complessità dell’immagine, aggiungendo un particolare identificativo, cioè le ciglia: spesso, infatti, in assenza di questo particolare veniva discriminato un pallone da rugby.
Un’altra strategia importante da sottolineare è stata adottata nella riproduzione del disegno. Abbiamo riscontrato notevoli difficoltà nel riprodurre il disegno da parte non solo dei soggetti con disabilità visiva, ma anche da parte dei bambini piccoli. Abbiamo fornito loro delle stecchette geometriche colorate di diverse misure, per permettere una più agevole ricostruzione della figura percepita tattilmente.

La somministrazione dello strumento è stata fatta su tre adolescenti, Lisa e Mirko (non vedenti) e Shruthi (ipovedente grave), tutti con disabilità visiva dalla nascita.

Mirko: fino all’età di undici anni non è stato seguito in modo adeguato e quindi non ha avuto la possibilità di sviluppare abilità quali analisi, organizzazione e pianificazione che gli permettessero di gestire lo spazio che gli oggetti che lo circondano.
Mirko ha iniziato questa esperienza, durata due settimane, a luglio e le difficoltà emerse hanno dimostrato la necessità di una mediazione costante e coerente soprattutto per quanto riguarda la raccolta e l’elaborazione sistematica di informazioni necessari e alla ricerca di strategie e abilità fondamentali alla conoscenza.


Shruthi: Completamente diversa è invece l’esperienza di Shruthi che attraverso il suo percorso, iniziato quando era piccola e portato avanti soprattutto dai genitori ma anche dalle persone che hanno interagito con lei a casa e a scuola, è stata in grado di affrontare questo strumento in maniera sequenziale. Ha infatti utilizzato, attraverso la mediazione, tutte le strategie in suo possesso. Con Shruthi le fasi delle funzioni cognitive (input – elaborazione – output) si sono svolte in maniera lineare ed alla fine le sue abilità e le strategie utilizzate per il riconoscimento delle varie figure geometriche erano più efficaci e più veloci.
Nonostante il problema visivo, abbiamo notato che, grazie all’ esperienza pregressa, Shruthi possiede un’immagine mentale di tutto quello che la circonda e ciò fa sembrare il suo residuo visivo di gran lunga maggiore di quanto realmente sia.
Bisogna comunque sottolineare che, l’enorme lavoro fatto in questi anni, in particolare dai genitori ha seguito, se pur spesso in maniera intuitiva, il metodo Feuerstein.



Lisa: Anche Lisa, fin dalla scuola materna è stata seguita da un mediatore alla comunicazione che le ha fornito strategie strumenti per il suo sviluppo sia cognitivo che percettivo. La mediazione volta alla ricerca di informazioni, al confronto e all’elaborazione di più informazioni contemporaneamente, è stata comunque importante per permetterle di discriminare e riconoscere le figure geometriche, ma soprattutto per il superamento delle difficoltà incontrate e l’interiorizzazione di quanto è stato sperimentato.
Attraverso la mediazione, Lisa ha dimostrato di essere in grado di creare bridging con oggetti e situazioni della vita quotidiana, di utilizzare l’esperienza precedente per riconoscere e interiorizzare con maggiore precisione anche le figure più complesse. Nel percorso con il Tri-channel ha usato un linguaggio sempre più specifico e preciso.

Abbiamo utilizzato il Tri-channel anche con un gruppo di bambini di età compresa tra i 4 e i 7 anni, dei quali due, Federica e Riccardo, con disabilità visiva.
Federica: Federica è terzogenita di tre figli, ha cinque anni e fino all’età di tre anni ha avuto una vista normale. A seguito di un intervento chirurgico in zona occipitale, ha parzialmente perso la vista. Una recidiva importante le ha causato una successiva riduzione del visus, provocandole, tra le altre cose, scosse di nistagmo importanti.
Al termine della convalescenza che ha seguito il primo intervento, la bambina è stata affiancata da un mediatore alla comunicazione, formato Feuerstein, che ha tarato tutto il proprio intervento sulla mediazione quale veicolo per consentirle strategie che compensassero in parte la minorazione visiva.
Nell’utilizzo del Tri-Channel è risultato in modo evidente che la bambina era già in possesso di strategie quali l’esplorazione sistematica, un utilizzo del linguaggio preciso e puntuale, la propensione spontanea al confronto. L’unica difficoltà emersa con Federica è stata quella legata alla riproduzione grafica della figura percepita, difficoltà efficacemente risolta grazie all’uso delle stecchette geometriche.

Riccardo: Riccardo, ipovedente, ha sette anni ed è l’unico figlio di genitori molto giovani, che, vista la disabilità visiva , hanno sempre cercato di sostituirsi al figlio, soprattutto nelle azioni quotidiane, le più importanti per permettergli di crescere, di essere autonomo e di sviluppare i processi cognitivi e mentali indispensabili al raggiungimento di determinate abilità.
Il bambino ha dimostrato difficoltà per quanto concerne l’esplorazione sistematica delle informazioni, soprattutto perché tende ai verbalismi, che gli rendono problematico concentrarsi sul compito. Il visus di Riccardo, tutto sommato buono, non viene sfruttato appieno dal bambino, che tende a non prestare attenzione visiva rispetto alle azioni che svolge.
La mediazione è stata importante soprattutto in questo: inducendolo a concentrarsi e a guardare ciò che stava facendo, Riccardo ha notevolmente ridotto i tempi di discriminazione, ricostruzione e riconoscimento delle figure.
Anche nel suo caso, come per Federica, l’utilizzo delle stecchette geometriche ha permesso di verificare l’effettiva interiorizzazione della figura, senza le difficoltà che il disegno su carta avrebbe comportato.


Ci sembra di poter concludere, alla luce di quanto emerso dalla sperimentazione con il Tri-Channel, che si tratta di uno strumento fondamentale per lavorare sulle immagini mentali dei soggetti con minorazione visiva. Come sostiene Piaget, infatti, “L'intelligenza è un sistema di operazioni. L'operazione non è altro che azione: un'azione reale, ma interiorizzata, divenuta reversibile. Perché il bambino giunga a combinare delle operazioni, si tratti di operazioni numeriche o di operazioni spaziali, è necessario che abbia manipolato, è necessario che abbia agito, sperimentato non solo su disegni ma su un materiale reale, su oggetti fisici.”.

EMOZIONI
Il lavoro con lo strumento “Identifica l’emozione” del PAS Basic ci è sembrato una sfida entusiasmante, soprattutto perché in questo caso si trattava di riprodurre tattilmente non disegni ma fotografie.
Abbiamo cercato di riportare gli originali nel modo più fedele possibile, pur rispettando i criteri del disegno in rilievo. Per le fotografie, ad esempio, abbiamo utilizzato un modello di volto sempre uguale, variando soltanto l’espressione, evitando in questo modo di obbligare il non vedente a dilungarsi nell’esplorazione di particolari diversi ad ogni immagine, creando invece un disegno familiare in cui fosse possibile concentrarsi proprio sull’espressione facciale, come previsto originariamente dallo strumento.



E proprio il lavoro sulle emozioni ci ha portato, scusate il gioco di parole, l’emozione più grande: i ragazzi l’hanno scomposta nei singoli dettagli, esplorando occhi, posizione delle sopracciglia, bocca, per poi ricomporre gli stessi elementi sul proprio volto, mimando il contenuto dell’immagine appena toccata. L’impatto è stato naturalmente molto forte, sia per noi che per loro, che si sono ritrovati per la prima volta a potersi costruire un’immagine di come cambi il volto di una persona a seconda di ciò che sta provando in un determinato momento.



ORIENTAMENTO SPAZIALE





Ci è sembrato importante prendere in considerazione la possibilità d rendere fruibile al tatto anche lo strumento Orientamento Spaziale Basic. La sperimentazione è stata impostata prendendo in considerazione la copertina e le 7 pagine-stimolo dello strumento. I disegni sono stati riprodotti ed elaborati cercando di semplificare il loro contenuto per renderlo accessibile a chi “vede” attraverso il tatto. Lo scopo principale ovviamente era far acquisire nuove competenze nell’ambito dell’orientamento spaziale con conseguente arricchimento del vocabolario.
La collaborazione di Lisa e il suo entusiasmo sono stati fondamentali, perché ci hanno permesso di capire come meglio potevamo riprodurre un particolare in una determinata scenetta, ma alla fine la cosa più importante è che lei stessa aveva raggiunto, attraverso l’apprendimento mediato, un’ottima padronanza nell’orientarsi all’interno dei vari contesti, cogliendo anche i più piccoli particolari.
L’obiettivo principale è stato perciò quello di insegnare a Lisa a capire ed utilizzare correttamente posizioni nello spazio tramite il riconoscimento e il collocamento di oggetti in determinati punti delle pagine-stimolo. Abbiamo con lei collaborato per costruire e consolidare il concetto di posizione, di relazione spaziale e di orientamento, cosa che ha permesso inoltre, nel corso della somministrazione, un miglior utilizzo dei concetti e una buona gestione di se stessi all’interno dell’ambiente.


[filmato Lisa O.S.]

Lavorare con i non vedenti e le immagini è stata per noi un’enorme sfida e l’inizio di un percorso che, portato avanti con i nostri ragazzi, di sicuro ci riserverà nuove emozioni e grandi sorprese.
La possibilità di avere accesso all’immagine in modo diretto, non attraverso un racconto ma tramite la propria fruizione ed esperienza, ci sembra uno strumento di crescita importante e grande fonte di arricchimento.
Proviamo a immaginare il percorso di formazione di un bambino non vedente, guidato alla lettura delle immagini fin da piccolo: quante possibilità di arricchire il proprio bagaglio di esperienze, quanti elementi di scambio con i coetanei, quanta ricchezza!
Vogliamo quindi chiudere il nostro intervento proprio con le parole di Lisa, che ci raccontano cosa abbia significato per lei questa esperienza.
Le sue parole, nel descriverlo, saranno di certo più VERE e VIVE delle nostre.


LISA … le sue EMOZIONI

Mi è piaciuto molto collaborare a questo progetto perché mi ha dato l'opportunità di crearmi delle immagini mentali, di provare nuove sensazioni tattili e dire in prima persona cosa rappresenta l'immagine che sto toccando.
Di solito, mi faccio descrivere un'immagine da qualcuno che la vede con i propri occhi, che diventano il mezzo attraverso il quale capisco la situazione in cui mi trovo e quello che accade intorno a me.
La cosa non è così semplice, intendo dire che chi guarda l'immagine la mette a fuoco immediatamente con gli occhi, mentre io devo attuare un meccanismo più complesso: devo cioè, dopo essermela fatta descrivere, cercare di ricostruirla mentalmente secondo l'idea che ho dell'immagine stessa. Se ad esempio, mi viene detto che davanti a me c'è un albero in fiore, per raffigurarmelo devo pensare all'albero con tutti i suoi componenti radici, tronco, rami, foglie fiori; pur sapendo come è fatto un albero devo compiere un'elaborazione mentale come se costruissi un puzzle mettendo insieme i vari pezzi.
La stessa cosa accade quando mi viene descritto un quadro devo sforzarmi di ricomporre mentalmente le figure per avere un'idea chiara di cosa il quadro rappresenti e non è per niente facile.
Credo sia molto utile poter “leggere” le immagini, così non le rappresento nella mia mente utilizzando gli occhi di qualcun altro ma attraverso le mie mani.
E’ stata un'esperienza molto positiva e arricchente che mi ha aiutato a ragionare in modo diverso (sono io che descrivo e comunico agli altri quello che sento), e ad avere un approccio più diretto e immediato con la figura che analizzo.
Finalmente ho avuto modo di esprimermi ed esprimere quello che penso
, è stato molto formativo perché mi ha permesso di vedere le cose in maniera diversa.


[1] Intervento alla giornata di studio: nuove prospettive riabilitative nelle minorazioni visive e nei deficit di attenzione con iperattività. 28 ottobre 2007 Istituto don Calabria - Milano