giovedì, luglio 17, 2008





“Adozione e integrazione:
una possibile condivisione di significati



Cristina Cattini

Premessa

Negli ultimi anni ho incontrato e sto incontrando spesso bambini e bambine che hanno vissuto l’esperienza dell’adozione e condivido con loro lunghi periodi di applicazione del Metodo Feuerstein.

Fernando Savater scrive:

Nessuno diventa umano da solo… Riceviamo l’umanità che è in noi per contagio… Leggiamo la nostra umanità negli occhi dei nostri genitori o di coloro che si prendono cura di noi in vece loro.

E’ uno sguardo che contiene amore, preoccupazione, rimprovero, burla: cioè significati. Un bambino cerca lo sguardo della madre non solo affinchè accorra per nutrirlo e consolarlo, ma anche perché questo sguardo apporta un complemento indispensabile: lo conferma nella sua esistenza”.

Vedo l’applicazione del P.A.S. come una possibilità di sguardo nuovo e positivo sulla loro storia difficile.

Il bambino adottato convive con il doloroso fatto che i genitori biologici non hanno potuto (voluto) tenerlo con loro e questo lo espone alla prematura ferita della perdita. La famiglia adottiva genera il bambino nel suo essere figlio a partire dall’esperienza dell’abbandono.

Spesso questi bambini sono considerati difficili, estremamente problematici proprio a causa dell’esperienza che hanno vissuto; sperimentano difficoltà di concentrazione, di astrazione, di linguaggio, percezione visuo-spaziale alterata, rad (reactive attachment disorder-sindrome di non attaccamento), blocco emotivo, bassa autostima anche a causa degli episodi di bullismo di cui spesso sono vittime.
L’applicazione del P.A.S. può favorire il gettare uno sguardo di mente e di cuore sul bambino, per aiutarlo a definire i suoi contorni anche cognitivi.
E’ fondamentale sapere che questi bambini hanno potenzialità inutilizzate enormi, sopite fortemente dall’instabilità della situazione da cui arrivano, dalla mancanza di punti di riferimento affettivi e cognitivi; l’importante è non considerare queste difficoltà come tratti di personalità, per non imbrigliare il bambino emotivamente e cognitivamente ancora di più nella sua storia ferita.


Diversi livelli di integrazione: socio-culturale e psico-educativo

Nell’adozione si può pensare all’integrazione a diversi livelli. Io ne considero in particolare due: socio-culturale e psico-educativo.

1) Livello socio-culturale
Nella quotidianità, nella scuola, nel tempo libero, nelle amicizie.
Parlare dell’adozione trattandola come una delle possibili esperienze di vita.
La scuola in questo ambito può fare tanto già a partire dalla scuola materna. Ecco alcune attività che si possono proporre: leggere fiabe che parlino di adozione, drammatizzazione dell’andare all’aeroporto a ricevere il fratellino o la sorellina adottati, preparare la casa per il bimbo adottato…).
E’ indispensabile inoltre un lavoro sul pregiudizio nei confronti di chi non appartiene ad una famiglia tradizionale (non solo bambini adottati ma anche figli di genitori separati).
Lavoro sull’apertura del campo mentale, aiutando i bambini a considerare diverse fonti di informazione, prendendo in considerazione anche esperienze e percorsi di vita a cui non sono abituati. E’ necessario che i bambini imparino a costruire realtà esperite
[1] derivanti dall’incontro vero con l’altro e con la sua storia, soprattutto se dolorosa.
Il linguaggio deve essere il più adatto possibile al contesto, in modo da favorire l’apertura e il racconto da parte dei bambini adottati, ma anche un ampliamento del vocabolario dei compagni di classe, i quali, attraverso un linguaggio adeguato, possono imparare a conoscere meglio la realtà delle adozioni.
Inoltre il possedere linguaggi appropriati permette un ampliamento di strumenti e concetti verbali: “gli strumenti verbali sono necessari per raccogliere, immagazzinare, elaborare ed esprimere informazioni […] Influiscono sulla capacità di discriminare tra oggetti ed eventi. Operano in tutte e tre le fasi dell’atto mentale. Strumenti verbali carenti limitano la possibilità di operare sugli elementi percepiti e riducono la qualità e la quantità di informazioni raccolte. Termini appropriati sono necessari per descrivere relazioni e operazioni cognitive richieste per generalizzare. Nella fase di output gli strumenti verbali permettono la comprensione e la comunicazione di operazioni più complesse e astratte”
[2]
Un esempio sulla pertinenza del linguaggio: utilizzare il termine “genitore naturale” può far pensare al suo opposto, ossia ad un “genitore artificiale”! Se non si riflette bene sul linguaggio che si usa, si possono creare in classe come al parco situazioni imbarazzanti e a volte dolorose. In questo caso si deve preferire il termine “genitore di nascita” e “genitori adottivi”, verbalizzando anche il fatto che la mancanza di legami di sangue non rende un genitore adottivo meno genitore.
Oppure: “andare a prendere il bambino, al quale è certamente da preferire l’espressione “diventare genitori”.

2) Livello psico-educativo
Per integrazione possiamo intendere inoltre il graduale sviluppo delle funzioni del sistema nervoso secondo un ordine biologico che tende al creare un’unità. In psicologia si usa il termine integrazione anche per indicare l’avvenuto processo di assimilazione e accomodamento di nuove esperienze e nuovi elementi nella struttura psichica della persona, oltre all’adattamento al sistema sociale e socioculturale esistenti.
I bambini adottati vivono una profonda disunità e una percezione spesso episodica della realtà; per loro è molto difficile collegare la storia attuale ad eventi precedenti, se non attraverso la sofferenza del ricordo negativo di alcuni episodi traumatici dell’infanzia. Spesso la capacità di assimilazione e di connessione fra gli eventi è alterata dall’esperienza in Istituto, che confina spesso i bambini in giornate senza avvenimenti significativi che le scandiscano e che aiutino a strutturare il senso del ritmo del tempo.


Il Metodo Feuerstein, strumento di integrazione

Il Metodo Feuerstein permette un lavoro di integrazione trasversale:
del bambino con se stesso, perché lo aiuta a rimettere insieme i pezzi del suo volto frammentato e ad affrontare la paura che rimane sempre sullo sfondo dei giorni. Lo aiuta inoltre ad accrescere le competenze comunicative, soprattutto linguistiche, paralinguistiche (spesso ai bambini adottati vengono diagnosticati disturbi del linguaggio) e socioculturali. Oltre al lavoro di potenziamento cognitivo, il P.A.S. permette al bambino di ricevere mediazione sul significato delle attività proposte per imparare ad andare oltre, anche rispetto ai significati della propria storia e della quotidianità, puntando alla trascendenza insita in tutte le esperienze. Il bambino adottato ha bisogno di un grande lavoro sul senso di competenza, in quanto è frequente che abbia una bassa autostima a causa dell’esperienza del rifiuto e dell’abbandono e quindi delle difficoltà a valutare serenamente i punti di forza e quelli su cui lavorare. E’ necessario far riscoprire al bambino la potenza
[3] del suo pensiero, della sua mente, per permettergli di spendere i molti talenti a sua disposizione, mettersi in gioco per superare le difficoltà e realizzare i suoi obiettivi. Un’altra mediazione fondamentale è quella dell’individualità e della differenziazione psicologica: il bambino adottato deve sperimentare relazioni finalmente positive in cui rispecchiarsi, per poter cogliere la propria unicità, le caratteristiche peculiari di se stesso attraverso le quali poter arrivare all’autonomia. L’individualità può essere paragonata all’impronta digitale, che è differente per ogni persona[4].
Opportuno è stimolare anche la certezza della modificabilità, per aiutare il bimbo a comprendere che le cose possono cambiare e migliorare, a partire proprio da quello che non va e che ci crea difficoltà; individuare il potenziale positivo insito nel cambiamento permette di gioire di ciò che inizialmente destabilizza.
Infine, importantissima è la mediazione del senso di appartenenza ad un gruppo, ad un paese, ad una comunità in modo da potersi sentire parte di ambienti che permettano di dare significati condivisi e risposte di senso, di dare e ricevere amore e amicizia.

Nell’abitare ambienti modificanti. I bambini devono poter beneficiare di presenze attorno a loro che credano fortemente nella modificabilità della mente umana. E’ infatti sempre possibile cambiare in positivo, anche grazie al supporto e al sostegno di persone fiduciose e accoglienti, che possono favorire un migliore adattamento agli accadimenti e alla quotidianità. Creare ambienti modificanti (a scuola, in famiglia, nel tempo libero) significa supplire alle deprivazioni di cui il bambino è stato vittima, permettendogli di recuperare serenamente il tempo perduto a causa dell’abbandono e quindi alla mancanza di relazioni significative intenzionali ed attive volte allo sviluppo di un’autonomia completa. Le relazioni possono essere spese per trasformare il potenziale in funzionamento e per creare nuove possibilità di apprendimento.
[5]

Nella famiglia che ha accolto il bambino, attraverso un accompagnamento fatto di speranza e sostegno nelle difficoltà. Il mediatore Feuerstein deve inoltre fornire tutte le informazioni necessarie sulla plasticità della mente, sulle potenzialità sovente inesplorate della mente umana che, attraverso strategie efficaci, possono emergere e migliorare la vita del bambino e quindi della sua famiglia.
La coppia che si apre all’adozione ha spesso anche un doloroso bagaglio fatto di una costellazione di fattori bisognosi di trovare un ambiente in cui confrontarsi serenamente, senza troppe remore e dando il nome giusto alle esperienze.
Un papà che ha accolto qualche anno fa una bambina e segue ora gli iter di coppie adottive ha riletto con originalità la sua esperienza etichettandola “Sindrome di Stoccolma post-adottiva”
[6]. Con ironia viene spiegato di uno strano fenomeno che colpisce le coppie adottive appena possono finalmente stringere fra le braccia il bambino o la bambina tanto attesi, dopo un lungo e doloroso iter. Inebriati dalla gioia, i genitori iniziano inconsciamente a rileggere tutta la esperienza che li ha condotti fino a quel bambino che ora è entrato anche fisicamente nella loro vita e tutto improvvisamente diventa positivo e quasi magico, soprattutto le cose negative. Quindi i tempi, spesso lunghissimi, di attesa, le pratiche, i tanti documenti, gli incontri con i Servizi Sociali, il dolore dell’attesa protratta, l’incontro con il bambino che poi si doveva lasciare in Istituto per diversi altri mesi tutto cambia assumendo colori pastello, tinte delicate, profumi deliziosi, scrive l’autore. La Sindrome di Stoccolma post-adottiva placa forse la durezza dell’esperienza, ma è necessario conservare un po’ di rabbia storica funzionale allo scatto che si deve fare per integrare pienamente l’esperienza traumatica dell’attesa nella propria storia di vita. L’ascolto di un mediatore può essere utile a questo scopo, attraverso l’importante mediazione di significato, di trascendenza, di condivisione e di sentimento di appartenenza.

Lavoro con il Programma di Arricchimento Strumentale
La nuova danza

Il motivo per cui le famiglie dei bambini adottati richiedono le applicazioni P.A.S. e l’accompagnamento di un mediatore è sempre inerente a ritardi cognitivi, emotivi e linguistici causati dalla dolorosa storia che il bambino porta in dote al suo arrivo in Italia.
Il bonding
[7]nel bambino adottato è stato prematuramente interrotto da una separazione dalla madre di nascita, producendo un’esperienza di perdita che si imprime in maniera indelebile nella mente e nel cuore e generando così la cosiddetta ferita primaria. I comportamenti di attaccamento[8] includono anche la rappresentazione del mondo e di se stessi; i bambini si percepiscono come tranquilli e sicuri di loro stessi perché hanno sperimentato un mondo positivo e accogliente attraverso l’attaccamento. La ferita primaria porta invece il bambino a sentirsi indegno di essere amato e scatenando rabbia e disperazione, rendendogli difficile partire da una base sicura e introiettare una relazione con la madre di nascita sufficientemente buona, che gli permetta di avere fiducia nel mondo e nelle sue potenzialità.
La relazione che si instaura fra la mamma e il suo bimbo nei primi anni di vita può essere paragonata ad una danza che, se interrotta, provoca chiusura e dolore. I passi di questa danza interrotta possono però essere recuperati, imparati di nuovo grazie ad una nuova musica che la famiglia adottiva compone insieme al suo bambino.
L’applicazione del P.A.S. può aiutare nel componimento di questa musica di mente e di cuore, che fa nascere una nuova danza, oltre la ferita.

Gli strumenti del Programma che applico nella prima parte del percorso, e su cui mi soffermerò in questo intervento, sono
Organizzazione Punti Basic (O.P. basic)
e Identifica le Emozioni (I.E.)

Il compito principale di O.P. basic è di sviluppare le funzioni cognitive grazie ad una modalità visiva, motoria e figurativa identificando, all’interno di una nuvola di punti, le forme geometriche presenti nel modello, scegliendo e mettendo in relazione i punti, superando difficoltà crescenti e riconoscendo gli errori nelle pagine apposite.
Risolvere i problemi proposti dalle pagine aiuta il bambino a rafforzare la percezione, organizzare lo spazio e sviluppare strategie per elaborare le informazioni in maniera sistematica e rispondere in modo accurato. L’allievo impara a proiettare relazioni virtuali tra elementi che inizialmente non sono in collegamento fra loro.
Il bambino adottato impara così a mettere in relazione anche fatti ed eventi, a fare unità nella propria storia, mettendo ordine e ripensando le cose in maniera più unitaria e sistematica.
Il creare buone abitudini cognitive permette di digerire la propria storia, soprattutto nelle sue componenti dolorose, in maniera più serena ed efficace.
L’applicazione di O.P., come tutti gli strumenti del P.A.S., permette inoltre di lavorare sui comportamenti intelligenti, ossia sulle capacità di adattarsi con efficacia alle richieste dell’ambiente interno ed esterno; il pensiero flessibile è indispensabile per comportarsi in maniera armonicamente orientata al proprio benessere.

Lo strumento I.E. ha l’obiettivo importantissimo di fornire al bambino un contesto in cui pensare, etichettare e comunicare le emozioni attraverso schede che propongono le emozioni principali (sorpresa, tristezza, disgusto, paura, dolore, rabbia, felicità) e 4 scene, 3 delle quali che rappresentano una diversa intensità dell’emozione in oggetto, mentre un’ultima crea il contrasto cognitivo proponendo una emozione non pertinente rispetto a quella analizzata .
I bambini vengono guidati, nelle schede, a chiamare le emozioni con il loro giusto nome, cosa importantissima in questa società dove spesso impera l’analfabetismo emotivo e una grossa povertà di linguaggio rispetto ai termini con cui si descrive il proprio mondo interiore. Inoltre dare un nome, utilizzare termini appropriati per descrivere ed etichettare, significa poter “addomesticare” la realtà con cui ci si relaziona; per un bambino adottato dare il nome giusto alle emozioni significa sciogliere magoni e collocare emozioni, che fino a poco prima facevano paura, nei contenitori giusti del conosciuto.

L’apprendimento e l’adattamento vengono favoriti dalla sinergia fra aspetti cognitivi ed emotivi, perché se sono sereno penso bene e se penso bene sono più sereno; questi due aspetti sono, insomma, due facce della stessa medaglia, come Piaget dice e a cui Feuerstein aggiunge il concetto della trasparenza di visione. Ecco perché è importante portare avanti parallelamente il lavoro cognitivo e quello emotivo.
Ho notato che nei bambini adottati è inizialmente molto utile l’attività con gli strumenti emotivi, come I.E., che apre la strada al lavoro più di natura cognitiva e lo determina positivamente. Sappiamo infatti che “da una parte le emozioni e il loro apprendimento sono magna pars dell’esperienza stessa, dall’altra senza emozioni non c’è adeguata elaborazione delle cose apprese e forse nemmeno apprendimento” (Boncinelli, 2007), perché è attraverso le emozioni che la persona percepisce ed entra in contatto con il mondo; sono le emozioni che colorano la percezione del bambino con colori chiari o colori tetri.
Durante l’applicazione del P.A.S. si assiste ad un fluire di stati d’animo, che finalmente possono essere etichettati correttamente ed affrontati con successo, al di là della ferita:

il dolore lancinante per l’abbandono subito: “Io ho visto l’inferno. Quando ero senza mamma e senza papà ero all’inferno!”. B., 11 anni (bimba adottata in Russia, arrivata in Italia a 3 anni da un Istituto).

I sogni spezzati e la fatica di rimettere insieme i pezzetti per imparare di nuovo la speranza: “Per me quel papà (il padre di nascita) era bellissimo, era un eroe!” G., 12 anni (bimbo adottato in Bulgaria, abbandonato in Istituto a 2 anni e adottato dopo 5 anni trascorsi nella struttura).

La mancanza di una memoria storica e culturale, l’assenza di ricordi belli e sereni: “Quando l’ho conosciuto, il mio bambino non aveva il senso delle favole!”. Mamma di C., 9 anni (bimbo adottato peruviano abbandonato a 2 mesi in un Istituto, arrivato in Italia a 4 anni). “Per molto tempo ho pensato che il mio bambino avesse perso la memoria, perché non aveva ricordi. Poi ho capito che la memoria si attiva se permette il recupero di buone cose e lui non aveva buone cose da ricordare dell’Istituto…”. Mamma di G.

Il P.A.S. contribuisce, grazie alla figura del mediatore e alla potenza della mente del bambino, all’apertura al mondo attraverso il padroneggiamento di strategie cognitive vincenti e spendibili. Prolunga inoltre quello spazio vitale creato dalla famiglia che permette un vissuto positivo che si trasforma in chimica cerebrale e favorisce una maggiore strutturazione del cervello e un incremento dell’intelligenza.
Il cervello infatti si sviluppa vivendo ed esperendo giorni fecondi, degni di essere ricordati e fatti fruttificare.
Parallelamente alla intelligenza, aumenta anche la fiducia del bambino in se stesso, l’apertura del campo mentale, la ricerca di alternative ottimistiche e l’apprendimento di una cultura e di una tradizione che mettono in profonda relazione il bambino adottato con i compagni e gli amici; la flessibilità che le buone abitudini cognitive permettono aumenta infatti la possibilità dell’incontro con l’altro (sentimento di appartenenza), pur rispettando le proprie peculiarità (mediazione della individualità e differenziazione psicologica).
Purtroppo il confronto con l’altro espone il bambino adottato, soprattutto se con caratteristiche somatiche diverse da quelle degli italiani, ad episodi di bullismo.
La prevaricazione e la svalutazione di identità che subiscono molti bambini adottati sono altamente pericolose per la loro capacità di apprendimento, già indebolita da tutti i fattori che sono stati citati. Inoltre questi episodi generano un’intensa sofferenza e una emarginazione rispetto al gruppo dominante. Il fenomeno del bullismo porta alla luce la fondamentale importanza della creazione di un reale clima di ascolto delle specificità di ciascun bambino, nel rispetto delle storie personali.
Quando è possibile è utile e consigliabile l’applicazione del P.A.S. nell’intera classe del bambino, in modo che tutti i compagni possano beneficiare di una alfabetizzazione emotiva che favorisca il rispetto e l’altruismo, l’empatia e la corretta espressione delle emozioni che ogni bambino prova, soprattutto di quelle negative.

Il mediatore e la virtù bambina

Ho sempre pensato al mediatore come ad un cercatore di speranza, soprattutto quando si lavora con un piccolo ferito dalla vita e dall’abbandono.
La capacità di speranza nelle infinite capacità di miglioramento dell’uomo è una virtù fondamentale per il mediatore, ed è forse la caratteristica che lo differenzia rispetto a molte visioni di altri esperti educativi (riporto da dialoghi che tutti noi abbiamo almeno una volta nella vita udito: “Che cosa pretendi? E’ un bambino con serie difficoltà, accettalo così com’è”, “Lo farai soffrire continuando a chiedere cose che non ti può dare”, “Con tutti i problemi che ha avuto per forza è stupido, non c’è rimedio!”, “Ma… migliorerà o rimarrà così per tutta la vita?!”e via così).
La speranza è una virtù bambina
[9]che permette la fiducia nelle piccole cose, nei piccoli progressi, nei germogli e nel bagliore fioco e senza speranza non si può accompagnare il bambino in una relazione che aiuti a reincantare la vita, ad avere fiducia nelle proprie possibilità.
Accanto alla speranza è fondamentale il coraggio di vegliare sulle gemme, spesso in solitudine, sui primi segni delle cose nuove che nascono e di non attendere l’orizzonte chiaro ma tanta luce quanta ne serve al primo passo. Il lavoro con i bambini con esigenze speciali, di qualunque natura esse siano, implica anche il rispetto che si deve alle cose velate e profetiche della vita; tanti aspetti nei bambini sono inizialmente a livello di profezia, di possibilità non ancora realizzata, di promessa alla cui realizzazione il mediatore può e deve credere.
Invece spesso si chiede ai bambini determinati punteggi nei test, nel QI, nell’adeguatezza a situazioni non rispettose delle loro esigenze, senza la capacità di affiancarsi a loro e camminare insieme, con obiettivi ben stabiliti ma anche con la voglia di lasciarsi interrogare e modificare noi stessi per primi dalla relazione inedita che stiamo vivendo con quel piccolo.
La modificabilità e la flessibilità vengono stimolate spontaneamente anche nel mediatore, perché il percorso del bambino di fronte a noi rispecchia una variegata gamma di esperienze che ci appartengono: la difficoltà, il fallimento, il recupero di energia e fiducia, la scoperta di strategie per superare il dolore e aumentare il benessere.


Concludo con una poesia di Martin Luther King, augurio per i nostri bambini ma anche per ciascuno di noi:

Se non puoi essere un pino sul monte
sii una canna nella valle;
se non puoi essere albero
sii un cespuglio
ma sii la migliore canna sulla sponda del ruscello,
il migliore piccolo cespuglio nella valle.
Se non puoi essere autostrada
sii un sentiero;
se non puoi essere il sole
sii una piccola stella,
ma sii sempre il meglio di ciò che puoi essere.
Cristina Cattini laureata in Scienze dell’Educazione, applicatrice e formatrice Feuerstein, dopo aver lavorato nel campo del sostegno scolastico a bambini e ragazzi disabili, si è dedicata all’applicazione a tempo pieno del Metodo Feuerstein con persone di ogni età (bambini, adulti, anziani). Nell’ottica della piena valorizzazione degli ambienti modificanti, in particolare della famiglia, ha creato a Modena il “Gruppo Genitori Mediatori”, da cui è nata “Meteaperte, Associazione per il pieno sviluppo e potenziamento delle persone con abilità differenti”.

BIBLIOGRAFIA

· Bertolini P, (1996), “Dizionario di pedagogia e scienze dell’educazione”, Zanichelli, Bologna
· Farneti A, (1998), “Elementi di psicologia dello sviluppo. Dalle teorie ai problemi quotidiani”, ed. Carocci, Roma
· Bowlby J, (1989), “Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento”, Raffaello Cortina Editore, Milano
· Kopciowski J, (2007), “Migliorare se stessi per ottenere di più. Riflessioni teoriche e proposte operative secondo il pensiero di Reuven Feuerstein”, ed. Koinè, Roma
· Kopciowski J, (2007), “Il recupero ed il potenziamento delle capacità mentali dei bambini nell’adozione”, rivista Minorigiustizia numero 2, Franco Angeli editore
· Vanini P, (2003), “Potenziare la mente? Una scommessa possibile. L’apprendimento mediato secondo il metodo Feuerstein”, Vannini Editrice, Brescia
· Polli L, (2004), “Maestra sai… sono nato adottato”, Casa Editrice Mammeonline
· AA.VV. (2004), “Mille e Mille modi di amare. Le fiabe del filo invisibile”, Casa Editrice Mammeonline
· Perna G, (2008), “La formula dell’intelligenza. Come scoprire e usare tutte le forze della mente”, San Paolo, Milano
· Newton Verrier N, (1993), “La ferita primaria. Comprendere il bambino adottato”, gruppo editoriale il Saggiatore, Milano
· Ronchi E.M., (2008), catechesi quaresimali sulla Speranza, Basilica di Sant’Ambrogio, Milano

SITOGRAFIA
· Sellini F, (2008), articolo “La Sindrome di Stoccolma…post-adottiva!”,
www.mammeonline.it
· www.icelp.org
· www.unachiaveperlamente.eu
·
www.ilresalomoneeilsuocalzolaio.blogspot.com




[1] Feuerstein e coll., 1980
[2] Feuerstein e coll., 2003
[3] Kopciowsky J. (2007), “Migliorare se stessi per ottenere di più. Riflessioni teoriche e proposte operative secondo il pensiero di Reuven Feuerstein”, ed. Koinè, Roma
[4] Kopciowski, 2007, p. 56
[5] Kopciowski J, (2006), articolo “Il recupero ed il potenziamento cognitivo delle capacità mentali dei bambini nell’adozione”
[6] Sellini F, (2008), articolo “La sindrome di Stoccolma… Post-adottiva!”, www.mammeonline.it
[7] Il bonding è un insieme di eventi fisiologici, psicologici e spirituali che iniziano nell’utero materno e continuano nel periodo post-natale, determinando l’attaccamento vitale fra la madre e il suo bambino.
[8] Il concetto di attaccamento si crea e si imprime attraverso tutte quelle manifestazioni che portano il bambino a ricercare il contatto con la madre aggrappandosi a lei, cercandone lo sguardo, avvicinandosi.
[9] Ronchi E. M., (2008) conferenze sulla Speranza, Basilica di Sant’Ambrogio, Milano

3 Comments:

Anonymous Anonimo said...

La ringrazio per Blog intiresny

3:43 AM  
Anonymous Anonimo said...

good start

3:44 AM  
Anonymous Anonimo said...

molto intiresno, grazie

8:36 AM  

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