domenica, dicembre 23, 2007

Difficoltà specifiche di apprendimento: affrontare la disgrafia con Feuerstein,


Paola Pini
Jael Kopciowski

In apertura, Jael Kopciowski, ha presentato la figura di Reuven Feuerstein sottolineando l’aspetto della modificabilità cognitiva, che non è il semplice riflesso a stimoli esterni o una risposta a cambiamenti interni, come la crescita: è soprattutto il risultato di una serie di atti volontari e consapevoli che possono, e in alcuni casi devono, essere guidati da una persona esterna.

E l’importanza dell’autostima nei soggetti colpiti da disturbi specifici di apprendimento è stato il punto centrale della relazione presentata da Paola Pini nel corso della conferenza. Questo è infatti l’elemento comune di chi soffre di questi problemi, ma anche di chi non riesce ad esprimere al meglio le proprie potenzialità.

Oltre ad un intervento precoce di rieducazione o di riabilitazione, il riconoscere quanto prima il bambino colpito dislessia, disgrafia, disortografia o discalculia, permette di evitare che il non sentirsi riconosciuto nelle proprie difficoltà, spesso erroneamente percepite come indici di svogliatezza, provochi, come sempre accade, una opinione negativa di sé e delle proprie reali capacità, che si esprimeranno attraverso un comportamento autolimitante. Ciò non potrà che aumentare la mancanza di autostima.

Dalle domande che i presenti hanno fatto è emerso che spesso, anche chi conosce l’argomento o lo affronta quotidianamente nel proprio ruolo di educatore, non sa che ci sono figure professionali che possono dare delle risposte pratiche e reali per affrontare e risolvere questo problema.

Il metodo proposto da Reuven Feuerstein serve a questo. Convinto che ogni individuo sia modificabile nelle proprie capacità di apprendimento, ha costruito degli strumenti che permettono a chi li utilizza di rendersi consapevole che questo è realmente possibile. È il rapporto diretto con il mediatore, l’educatore formato per applicare il metodo, che però fa la differenza riuscendo, attraverso le attività proposte, a far emergere le potenzialità presenti nel bambino, che riesce così di riappropriarsi della fiducia in se stesso.

Ed è proprio questa la chiave: non si può agire considerando esclusivamente la difficoltà “specifica”, e operare soltanto su questa, ma si dovrà saper gestire anche il lato emotivo, alla base dell’autostima.
Solo così si supereranno le inevitabili difficoltà che tale compito richiede.



domenica, dicembre 16, 2007

Come, quando, dove: mi organizzo

Come, quando, dove: mi organizzo


Il raggiungimento della capacità di gestione del proprio comportamento, cioè il possesso di quella autonomia che permette di non dipendere in modo eccessivo da un controllo esterno, è sicuramente uno degli obiettivi prioritari nella crescita dell’individuo. Non è un percorso facile o scontato, né, tanto meno, breve. Comincia nella primissima infanzia accompagnando tutto lo sviluppo fino alla piena maturità.
Per facilitarne l’acquisizione è bene far riferimento a due aspetti diversi: da una parte si tratta di promuovere l’individuazione delle regole che danno un senso al mondo, rendendolo un luogo che si è in grado, almeno in parte, di conoscere e prevedere, dall’altro si tratta di creare delle consuetudini personali che organizzino il proprio inserimento in quel mondo, aiutando a gestire tanto il quotidiano quanto l’imprevisto. Non sono due entità staccate ed indipendenti, ma strettamente correlate le une alle altre: per diventare autonomi ed autoreferenti è necessario conoscere il contesto in cui si è inseriti per anticipare le conseguenze delle proprie azioni.


Ne deriva che i bambini, e non solo loro, hanno bisogno di punti di riferimento solidi e sicuri che permettano di organizzare l’enorme quantità di stimoli da cui sono perennemente bombardati e di prevedere che cosa aspettarsi dal mondo. Sentirsi garantiti sulla continuità tra quanto già avvenuto e le aspettative per il futuro, è un bisogno umano: può essere definito l’equilibrio tra “l’essere” ed il “divenire” in cui il fatto di conoscere le regole che organizzano il gioco della vita facilita l’assunzione delle proprie responsabilità, consapevoli che, anche nel cambiamento, si rimane sempre se stessi.

Immaginate di dover entrare in un luogo sconosciuto immerso nell’oscurità più totale. Siete in prossimità della porta e non vedete nulla davanti a voi. Il primo movimento che farete sarà quello di cercare la parete accanto a voi, al di là dello stipite, nel tentativo di dare una dimensione allo spazio che vi circonda. La vostra mano tocca il vuoto; muovete allora un passo per cercare, a tentoni, un punto fermo un po’ più in là. Quanto più vi allontanate dalla porta di ingresso, cioè dal conosciuto, senza riuscire a definire i limiti all’interno dei quali vi trovate, tanto più aumenta in voi la sensazione di essere in un elemento che vi sfugge e crea ansia.
Ad un certo punto percepite sotto le dita qualche cosa di solido: tentate di aggrapparvi ma sembra che il fugace punto solido appena individuato si sottragga al vostro contatto: là dove avevate l’impressione di aver finalmente trovato una parete c’è di nuovo il nulla, creando una sensazione di panico ancora maggiore. Più cercate inutilmente di dare forma al luogo in cui vi trovate, maggiore è l’angoscia che vi invade, portandovi o all’immobilità o ad assumere comportamenti assurdi e disorganizzati.


Ebbene, la mancanza di pareti corrisponde all’assenza di regole chiare e comprese. Le pareti che danno la fuggevole sensazione di sicurezza creando un’ansia ancora maggiore nel momento in cui non ci sono più, sono paragonabili alla presenza di regole ambigue, non condivise e non costanti, regole che “compaiono e scompaiono” lasciando una sensazione di indefinito ed irraggiungibile.

Il “braccio di ferro” che tante volte i bambini fanno con l’apparente obiettivo di ottenere qualche cosa spesso nasce, invece, dal desiderio di tastare la solidità degli adulti che hanno il compito di guidarli verso la crescita, rappresentando le pareti solide dello spazio da loro vissuto e costituendo quel contenimento che dà senso e sicurezza al proprio essere.
Dare limiti precisi evitando le ambiguità che portano a sfide continue e senza costrutto non significa ingabbiare un bambino in un mondo privo di libertà, ma aiutarlo a trovare la propria strada. Se spiegati e coerenti i limiti infondono sicurezza .

Feuerstein ritiene che rendere consapevoli i bambini dell’esistenza di un ordine che loro possono conoscere ed, in parte, gestire, sia uno degli aspetti fondamentali del rapporto educativo, tanto da farne un Criterio della Mediazione.

Mediazione di Autoregolazione e Controllo del Comportamento.

L’obiettivo è incoraggiare l’individuo ad assumersi la responsabilità del proprio apprendimento e del proprio comportamento. Richiede la capacità di scegliere risposte appropriate agi stimoli o alle situazioni che di volta in volta si presentano, facendo riferimento a riflessioni personali ed autonome. Quando proponiamo risposte preconfezionate e strutturiamo le possibili reazioni alle situazione, riduciamo la possibilità di autonomia ed di autoregolazione.

I bambini che risultano particolarmente bisognosi di mediazione della regolazione del comportamento si situano ai due estremi opposti: quelli ipercinetici (o iperattivi) e quelli passivi.
I primi reagiscono in modo impulsivo a qualunque stimolo, senza darsi il tempo di osservare, di ascoltare, di scegliere i fattori rilevanti per riflettere e collegare in modo significativo gli elementi che costituiscono i dati del problema. Gli altri sono tanto inibiti da non essere in grado di avviare nessuna attività in modo autonomo, spesso sembrano amorfi e disinteressati a tutto ciò che li circonda, isolati in un loro mondo difficilmente raggiungibile. Per ambedue le tipologie, ma anche per tutti i bambini che si situano tra questi due poli, l’obiettivo della mediazione è quello di aiutarli a sviluppare modelli di comportamento che diventino linee guida per rispondere in modo adeguato ai diversi compiti che saranno chiamati ad affrontare. I modelli di comportamento saranno basati su attitudini e competenze personali e sulle esigenze dell’ambiente.

Per mediare l’autoregolazione e il controllo del comportamento bisogna aiutare il soggetto ad analizzare il compito con l’obiettivo di articolare il proprio comportamento in modo appropriato. Ciò richiede la capacità di:
1) frenare l’impulsività,
2) suddividere problemi complessi in parti più semplici
3) procedere attraverso un approccio sistematico.

E’ utile, a tal fine, creare i presupposti perché il soggetto sia in grado di visualizzare il futuro, prevedendo quali sono le possibili ricadute dei diversi comportamenti che può mettere in atto e facendo chiarezza sulla sequenza dei passi necessari al raggiungimento dell’obiettivo.

Le abilità che vanno stimolate sono, pertanto, sia di tipo cognitivo (le funzioni cognitive necessarie ad affrontare e risolvere il problema e la capacità di saper gestire l’elemento spazio/tempo in cui il problema è inserito) sia di tipo emozionale (la consapevolezza di avere gli strumenti per farcela e la motivazione a mettersi in gioco anche se ciò comporta fatica ed il rischio dell’insuccesso).

Mediare il controllo del comportamento può essere paragonato al fatto di installare un semaforo di autoregolazione: la luce rossa ha il compito di frenare comportamenti impulsivi che porterebbero a buttarsi a capofitto in una situazione o in un’attività; la luce gialla evidenzia la necessità di muoversi con cautela e riflessione operando in maniera sistematica ed appropriata; la luce verde incoraggia a procedere nell’attività; è uno stimolo soprattutto per chi chiede continuamente conferme esterne e non intraprenderebbe mai nulla senza il supporto di un mediatore vicino.
Il semaforo serve a dare equilibrio tra immobilismo ed attività priva di regole.


Cambiare è possibile[1]:

Ad ogni bambino di una classe è stato consegnato un foglio bianco senza fornire alcuna spiegazione. I bambini hanno reagito con un certo disagio: qualcuno ha cominciato a stropicciarlo nervosamente, qualcun altro lo ha utilizzato per costruire aeroplanini, altri hanno continuato insistentemente a chiedere che cosa ci dovessero fare, i più impazienti hanno cominciato a muoversi, ad alzarsi, a girare, non riuscendo a sopportare l’attesa.
Dopo un certo tempo sono state distribuite le matite, ma accompagnate dalla consegna di lasciarle sul banco.
Il passo successivo è stato quello di invitarli a tenere in mano la matita senza utilizzarla.
Infine sono state date le consegne: bisognava scrivere una frase su un determinato argomento, ma era necessario attendere un minuto preciso, orologio alla mano, prima di cominciare.
Tutte le fasi dell’esperimento sono state discusse, analizzando le reazioni della classe e sottolineando i comportamenti impulsivi. I risultati sono stati sorprendenti, i bambini si sono resi conto di quanto l’impulsività influisca sui loro comportamenti e di quanto abili possono essere a tenerla sotto controllo, se ci si mettono con volontà ed adottano strategie per farlo.

1.L’esperimento è tratto dal libro di Nessia Laniado
Come insegnare l’intelligenza ai vostri bambini Ed. Red 2002

Personalmente ho provato a sottoporre allo stesso esperimento persone adulte che operano in ambito educativo, al fine di far provare in prima persona la sensazione di disagio conseguente alla necessità di frenare l’impulso di agire. L’obiettivo esplicitato nel corso dell’esperimento, era quello di discutere sulle strategie che ognuno avevo messo in atto per gestire la propria impulsività, in modo da aiutare i bambini a fare altrettanto.








Articolo pubblicato su Scuola Materna (Casa editrice La Scuola) il 25-02-06