giovedì, luglio 17, 2008

L'integrazione possibile

Se la parola "impossibile" descrive un'"emozione", in certi momenti la vita di Michele, ma anche di chi gli sta intorno è "impossibile"
Quando lui dice "non ce la faccio piu'" "non resisto" ed effettivamente NON è in grado di controllare la sua compulsività e "la Nyhan " lo "comanda", quando chi gli è accanto anche lui non riesce a "controllare" la situazione ed è sommerso dal senso di ...im-potenza.
Se invece "impossibile" significa LA RESA in questi momenti allo sconforto, se è dichiarare che una vita così NON E' VITA, allora è un aggettivo assolutamente falso.
Credo che la LN sia stata definita così xché ciascuno di noi sente che "non è possibile" resistere senza impazzire ad una compulsione CONTINUA ad una minaccia sempre presente

- qual è "il possibile" di Michele
Ma Michele, nella sua quotidianità, come molti altri suoi colleghi LN di tutto il mondo, non è "impazzito" anzi "cresce" in consapevolezza, curiosità, arguzia.
La sua prima grandissima "DIVERSA ABILITA'" è proprio il fatto che anche se dice -non resisto- in realtà RESISTE.
Accanto ai limiti imposti dalla malattia si scoprono risorse e ricchezze: una grande capacità di comunicare, di interagire con l'ambiente, di farsi apprezzare ed amare. La voglia di capire, di imparare, di esserci, di VIVERE. Una forza COSTRUTTIVA che, proprio perché affiancata da un'onnipresente e invadente forza distruttiva, risulta POSSENTE.
Quindi IM.POSSIBILE, accanto a POSSIBILE, IM.POTENTE, accanto a POTENTE,

- quali sono gli ambiti di integrazione di Michi e che cosa lo rende più "integrabile"/"integrante"
POTER vivere "legati", limitati, sempre contenuti, POTER sorridere e scherzare, chiedere "come stai" accorgersi se l'altro ha un problema e offrirsi di conforto...questo rende FASCINOSI e, nei vari ambienti, "provoca" simpatia : pur essendo così ALIENA la malattia è così poco "alienato" il ragazzo che molti, oppressi dai propri limiti, dalle proprie impotenze, cercano nel dialogo con Michele... solidarietà e la danno.
Michele però ha BISOGNO di continua mediazione, per spiegare i suoi bisogni, per chiedere e ottenere contenimento, per affrontare situazioni e ambienti nuovi, per essere "presentato" globalmente (con tutta la sua Nyhan) a chi non lo conosce.
La sua maggior "autonomia" (sembrerebbe im.possibile chiedere di aumentare l'autonomia a chi DEVE essere sempre contenuto) passa per una maggiore capacità di comprendersi e farsi comprendere

Da quando ha iniziato a lavorare con il Feuerstein Michele è cresciuto in questa "autonomia", mi sembra abbia più chiarezza nell'individuare, nella complessità delle sue emozioni, compulsioni, sentimenti, ciò che lui desidera, mi sembra sia cresciuta la sua capacità di verbalizzare la "Nyhan" rispetto a altri suoi desideri, è capace a dire "ho un problema" e a chiarirlo invece che farsi prendere sempre dal pianto sconfortato. E' come si "orientasse" meglio nel putiferio della sua malattia e fosse quindi in grado di dare anche maggiori indicazioni a chi gli sta intorno.
...in fondo se la Nyhan è una tempesta implacabile, dobbiamo aiutare Michele a diventare un buon CAPITANO, capace di COMANDARE alla sua ciurma se spiegare le vele o ammainarle per non affondare, di mettere mano alle pompe o abbattere un albero,per non affondare anzi proseguire la navigazione e l'avventura della vita e giungere ad orizzonti nuovi (che tutti vorremmo vedere)





“Adozione e integrazione:
una possibile condivisione di significati



Cristina Cattini

Premessa

Negli ultimi anni ho incontrato e sto incontrando spesso bambini e bambine che hanno vissuto l’esperienza dell’adozione e condivido con loro lunghi periodi di applicazione del Metodo Feuerstein.

Fernando Savater scrive:

Nessuno diventa umano da solo… Riceviamo l’umanità che è in noi per contagio… Leggiamo la nostra umanità negli occhi dei nostri genitori o di coloro che si prendono cura di noi in vece loro.

E’ uno sguardo che contiene amore, preoccupazione, rimprovero, burla: cioè significati. Un bambino cerca lo sguardo della madre non solo affinchè accorra per nutrirlo e consolarlo, ma anche perché questo sguardo apporta un complemento indispensabile: lo conferma nella sua esistenza”.

Vedo l’applicazione del P.A.S. come una possibilità di sguardo nuovo e positivo sulla loro storia difficile.

Il bambino adottato convive con il doloroso fatto che i genitori biologici non hanno potuto (voluto) tenerlo con loro e questo lo espone alla prematura ferita della perdita. La famiglia adottiva genera il bambino nel suo essere figlio a partire dall’esperienza dell’abbandono.

Spesso questi bambini sono considerati difficili, estremamente problematici proprio a causa dell’esperienza che hanno vissuto; sperimentano difficoltà di concentrazione, di astrazione, di linguaggio, percezione visuo-spaziale alterata, rad (reactive attachment disorder-sindrome di non attaccamento), blocco emotivo, bassa autostima anche a causa degli episodi di bullismo di cui spesso sono vittime.
L’applicazione del P.A.S. può favorire il gettare uno sguardo di mente e di cuore sul bambino, per aiutarlo a definire i suoi contorni anche cognitivi.
E’ fondamentale sapere che questi bambini hanno potenzialità inutilizzate enormi, sopite fortemente dall’instabilità della situazione da cui arrivano, dalla mancanza di punti di riferimento affettivi e cognitivi; l’importante è non considerare queste difficoltà come tratti di personalità, per non imbrigliare il bambino emotivamente e cognitivamente ancora di più nella sua storia ferita.


Diversi livelli di integrazione: socio-culturale e psico-educativo

Nell’adozione si può pensare all’integrazione a diversi livelli. Io ne considero in particolare due: socio-culturale e psico-educativo.

1) Livello socio-culturale
Nella quotidianità, nella scuola, nel tempo libero, nelle amicizie.
Parlare dell’adozione trattandola come una delle possibili esperienze di vita.
La scuola in questo ambito può fare tanto già a partire dalla scuola materna. Ecco alcune attività che si possono proporre: leggere fiabe che parlino di adozione, drammatizzazione dell’andare all’aeroporto a ricevere il fratellino o la sorellina adottati, preparare la casa per il bimbo adottato…).
E’ indispensabile inoltre un lavoro sul pregiudizio nei confronti di chi non appartiene ad una famiglia tradizionale (non solo bambini adottati ma anche figli di genitori separati).
Lavoro sull’apertura del campo mentale, aiutando i bambini a considerare diverse fonti di informazione, prendendo in considerazione anche esperienze e percorsi di vita a cui non sono abituati. E’ necessario che i bambini imparino a costruire realtà esperite
[1] derivanti dall’incontro vero con l’altro e con la sua storia, soprattutto se dolorosa.
Il linguaggio deve essere il più adatto possibile al contesto, in modo da favorire l’apertura e il racconto da parte dei bambini adottati, ma anche un ampliamento del vocabolario dei compagni di classe, i quali, attraverso un linguaggio adeguato, possono imparare a conoscere meglio la realtà delle adozioni.
Inoltre il possedere linguaggi appropriati permette un ampliamento di strumenti e concetti verbali: “gli strumenti verbali sono necessari per raccogliere, immagazzinare, elaborare ed esprimere informazioni […] Influiscono sulla capacità di discriminare tra oggetti ed eventi. Operano in tutte e tre le fasi dell’atto mentale. Strumenti verbali carenti limitano la possibilità di operare sugli elementi percepiti e riducono la qualità e la quantità di informazioni raccolte. Termini appropriati sono necessari per descrivere relazioni e operazioni cognitive richieste per generalizzare. Nella fase di output gli strumenti verbali permettono la comprensione e la comunicazione di operazioni più complesse e astratte”
[2]
Un esempio sulla pertinenza del linguaggio: utilizzare il termine “genitore naturale” può far pensare al suo opposto, ossia ad un “genitore artificiale”! Se non si riflette bene sul linguaggio che si usa, si possono creare in classe come al parco situazioni imbarazzanti e a volte dolorose. In questo caso si deve preferire il termine “genitore di nascita” e “genitori adottivi”, verbalizzando anche il fatto che la mancanza di legami di sangue non rende un genitore adottivo meno genitore.
Oppure: “andare a prendere il bambino, al quale è certamente da preferire l’espressione “diventare genitori”.

2) Livello psico-educativo
Per integrazione possiamo intendere inoltre il graduale sviluppo delle funzioni del sistema nervoso secondo un ordine biologico che tende al creare un’unità. In psicologia si usa il termine integrazione anche per indicare l’avvenuto processo di assimilazione e accomodamento di nuove esperienze e nuovi elementi nella struttura psichica della persona, oltre all’adattamento al sistema sociale e socioculturale esistenti.
I bambini adottati vivono una profonda disunità e una percezione spesso episodica della realtà; per loro è molto difficile collegare la storia attuale ad eventi precedenti, se non attraverso la sofferenza del ricordo negativo di alcuni episodi traumatici dell’infanzia. Spesso la capacità di assimilazione e di connessione fra gli eventi è alterata dall’esperienza in Istituto, che confina spesso i bambini in giornate senza avvenimenti significativi che le scandiscano e che aiutino a strutturare il senso del ritmo del tempo.


Il Metodo Feuerstein, strumento di integrazione

Il Metodo Feuerstein permette un lavoro di integrazione trasversale:
del bambino con se stesso, perché lo aiuta a rimettere insieme i pezzi del suo volto frammentato e ad affrontare la paura che rimane sempre sullo sfondo dei giorni. Lo aiuta inoltre ad accrescere le competenze comunicative, soprattutto linguistiche, paralinguistiche (spesso ai bambini adottati vengono diagnosticati disturbi del linguaggio) e socioculturali. Oltre al lavoro di potenziamento cognitivo, il P.A.S. permette al bambino di ricevere mediazione sul significato delle attività proposte per imparare ad andare oltre, anche rispetto ai significati della propria storia e della quotidianità, puntando alla trascendenza insita in tutte le esperienze. Il bambino adottato ha bisogno di un grande lavoro sul senso di competenza, in quanto è frequente che abbia una bassa autostima a causa dell’esperienza del rifiuto e dell’abbandono e quindi delle difficoltà a valutare serenamente i punti di forza e quelli su cui lavorare. E’ necessario far riscoprire al bambino la potenza
[3] del suo pensiero, della sua mente, per permettergli di spendere i molti talenti a sua disposizione, mettersi in gioco per superare le difficoltà e realizzare i suoi obiettivi. Un’altra mediazione fondamentale è quella dell’individualità e della differenziazione psicologica: il bambino adottato deve sperimentare relazioni finalmente positive in cui rispecchiarsi, per poter cogliere la propria unicità, le caratteristiche peculiari di se stesso attraverso le quali poter arrivare all’autonomia. L’individualità può essere paragonata all’impronta digitale, che è differente per ogni persona[4].
Opportuno è stimolare anche la certezza della modificabilità, per aiutare il bimbo a comprendere che le cose possono cambiare e migliorare, a partire proprio da quello che non va e che ci crea difficoltà; individuare il potenziale positivo insito nel cambiamento permette di gioire di ciò che inizialmente destabilizza.
Infine, importantissima è la mediazione del senso di appartenenza ad un gruppo, ad un paese, ad una comunità in modo da potersi sentire parte di ambienti che permettano di dare significati condivisi e risposte di senso, di dare e ricevere amore e amicizia.

Nell’abitare ambienti modificanti. I bambini devono poter beneficiare di presenze attorno a loro che credano fortemente nella modificabilità della mente umana. E’ infatti sempre possibile cambiare in positivo, anche grazie al supporto e al sostegno di persone fiduciose e accoglienti, che possono favorire un migliore adattamento agli accadimenti e alla quotidianità. Creare ambienti modificanti (a scuola, in famiglia, nel tempo libero) significa supplire alle deprivazioni di cui il bambino è stato vittima, permettendogli di recuperare serenamente il tempo perduto a causa dell’abbandono e quindi alla mancanza di relazioni significative intenzionali ed attive volte allo sviluppo di un’autonomia completa. Le relazioni possono essere spese per trasformare il potenziale in funzionamento e per creare nuove possibilità di apprendimento.
[5]

Nella famiglia che ha accolto il bambino, attraverso un accompagnamento fatto di speranza e sostegno nelle difficoltà. Il mediatore Feuerstein deve inoltre fornire tutte le informazioni necessarie sulla plasticità della mente, sulle potenzialità sovente inesplorate della mente umana che, attraverso strategie efficaci, possono emergere e migliorare la vita del bambino e quindi della sua famiglia.
La coppia che si apre all’adozione ha spesso anche un doloroso bagaglio fatto di una costellazione di fattori bisognosi di trovare un ambiente in cui confrontarsi serenamente, senza troppe remore e dando il nome giusto alle esperienze.
Un papà che ha accolto qualche anno fa una bambina e segue ora gli iter di coppie adottive ha riletto con originalità la sua esperienza etichettandola “Sindrome di Stoccolma post-adottiva”
[6]. Con ironia viene spiegato di uno strano fenomeno che colpisce le coppie adottive appena possono finalmente stringere fra le braccia il bambino o la bambina tanto attesi, dopo un lungo e doloroso iter. Inebriati dalla gioia, i genitori iniziano inconsciamente a rileggere tutta la esperienza che li ha condotti fino a quel bambino che ora è entrato anche fisicamente nella loro vita e tutto improvvisamente diventa positivo e quasi magico, soprattutto le cose negative. Quindi i tempi, spesso lunghissimi, di attesa, le pratiche, i tanti documenti, gli incontri con i Servizi Sociali, il dolore dell’attesa protratta, l’incontro con il bambino che poi si doveva lasciare in Istituto per diversi altri mesi tutto cambia assumendo colori pastello, tinte delicate, profumi deliziosi, scrive l’autore. La Sindrome di Stoccolma post-adottiva placa forse la durezza dell’esperienza, ma è necessario conservare un po’ di rabbia storica funzionale allo scatto che si deve fare per integrare pienamente l’esperienza traumatica dell’attesa nella propria storia di vita. L’ascolto di un mediatore può essere utile a questo scopo, attraverso l’importante mediazione di significato, di trascendenza, di condivisione e di sentimento di appartenenza.

Lavoro con il Programma di Arricchimento Strumentale
La nuova danza

Il motivo per cui le famiglie dei bambini adottati richiedono le applicazioni P.A.S. e l’accompagnamento di un mediatore è sempre inerente a ritardi cognitivi, emotivi e linguistici causati dalla dolorosa storia che il bambino porta in dote al suo arrivo in Italia.
Il bonding
[7]nel bambino adottato è stato prematuramente interrotto da una separazione dalla madre di nascita, producendo un’esperienza di perdita che si imprime in maniera indelebile nella mente e nel cuore e generando così la cosiddetta ferita primaria. I comportamenti di attaccamento[8] includono anche la rappresentazione del mondo e di se stessi; i bambini si percepiscono come tranquilli e sicuri di loro stessi perché hanno sperimentato un mondo positivo e accogliente attraverso l’attaccamento. La ferita primaria porta invece il bambino a sentirsi indegno di essere amato e scatenando rabbia e disperazione, rendendogli difficile partire da una base sicura e introiettare una relazione con la madre di nascita sufficientemente buona, che gli permetta di avere fiducia nel mondo e nelle sue potenzialità.
La relazione che si instaura fra la mamma e il suo bimbo nei primi anni di vita può essere paragonata ad una danza che, se interrotta, provoca chiusura e dolore. I passi di questa danza interrotta possono però essere recuperati, imparati di nuovo grazie ad una nuova musica che la famiglia adottiva compone insieme al suo bambino.
L’applicazione del P.A.S. può aiutare nel componimento di questa musica di mente e di cuore, che fa nascere una nuova danza, oltre la ferita.

Gli strumenti del Programma che applico nella prima parte del percorso, e su cui mi soffermerò in questo intervento, sono
Organizzazione Punti Basic (O.P. basic)
e Identifica le Emozioni (I.E.)

Il compito principale di O.P. basic è di sviluppare le funzioni cognitive grazie ad una modalità visiva, motoria e figurativa identificando, all’interno di una nuvola di punti, le forme geometriche presenti nel modello, scegliendo e mettendo in relazione i punti, superando difficoltà crescenti e riconoscendo gli errori nelle pagine apposite.
Risolvere i problemi proposti dalle pagine aiuta il bambino a rafforzare la percezione, organizzare lo spazio e sviluppare strategie per elaborare le informazioni in maniera sistematica e rispondere in modo accurato. L’allievo impara a proiettare relazioni virtuali tra elementi che inizialmente non sono in collegamento fra loro.
Il bambino adottato impara così a mettere in relazione anche fatti ed eventi, a fare unità nella propria storia, mettendo ordine e ripensando le cose in maniera più unitaria e sistematica.
Il creare buone abitudini cognitive permette di digerire la propria storia, soprattutto nelle sue componenti dolorose, in maniera più serena ed efficace.
L’applicazione di O.P., come tutti gli strumenti del P.A.S., permette inoltre di lavorare sui comportamenti intelligenti, ossia sulle capacità di adattarsi con efficacia alle richieste dell’ambiente interno ed esterno; il pensiero flessibile è indispensabile per comportarsi in maniera armonicamente orientata al proprio benessere.

Lo strumento I.E. ha l’obiettivo importantissimo di fornire al bambino un contesto in cui pensare, etichettare e comunicare le emozioni attraverso schede che propongono le emozioni principali (sorpresa, tristezza, disgusto, paura, dolore, rabbia, felicità) e 4 scene, 3 delle quali che rappresentano una diversa intensità dell’emozione in oggetto, mentre un’ultima crea il contrasto cognitivo proponendo una emozione non pertinente rispetto a quella analizzata .
I bambini vengono guidati, nelle schede, a chiamare le emozioni con il loro giusto nome, cosa importantissima in questa società dove spesso impera l’analfabetismo emotivo e una grossa povertà di linguaggio rispetto ai termini con cui si descrive il proprio mondo interiore. Inoltre dare un nome, utilizzare termini appropriati per descrivere ed etichettare, significa poter “addomesticare” la realtà con cui ci si relaziona; per un bambino adottato dare il nome giusto alle emozioni significa sciogliere magoni e collocare emozioni, che fino a poco prima facevano paura, nei contenitori giusti del conosciuto.

L’apprendimento e l’adattamento vengono favoriti dalla sinergia fra aspetti cognitivi ed emotivi, perché se sono sereno penso bene e se penso bene sono più sereno; questi due aspetti sono, insomma, due facce della stessa medaglia, come Piaget dice e a cui Feuerstein aggiunge il concetto della trasparenza di visione. Ecco perché è importante portare avanti parallelamente il lavoro cognitivo e quello emotivo.
Ho notato che nei bambini adottati è inizialmente molto utile l’attività con gli strumenti emotivi, come I.E., che apre la strada al lavoro più di natura cognitiva e lo determina positivamente. Sappiamo infatti che “da una parte le emozioni e il loro apprendimento sono magna pars dell’esperienza stessa, dall’altra senza emozioni non c’è adeguata elaborazione delle cose apprese e forse nemmeno apprendimento” (Boncinelli, 2007), perché è attraverso le emozioni che la persona percepisce ed entra in contatto con il mondo; sono le emozioni che colorano la percezione del bambino con colori chiari o colori tetri.
Durante l’applicazione del P.A.S. si assiste ad un fluire di stati d’animo, che finalmente possono essere etichettati correttamente ed affrontati con successo, al di là della ferita:

il dolore lancinante per l’abbandono subito: “Io ho visto l’inferno. Quando ero senza mamma e senza papà ero all’inferno!”. B., 11 anni (bimba adottata in Russia, arrivata in Italia a 3 anni da un Istituto).

I sogni spezzati e la fatica di rimettere insieme i pezzetti per imparare di nuovo la speranza: “Per me quel papà (il padre di nascita) era bellissimo, era un eroe!” G., 12 anni (bimbo adottato in Bulgaria, abbandonato in Istituto a 2 anni e adottato dopo 5 anni trascorsi nella struttura).

La mancanza di una memoria storica e culturale, l’assenza di ricordi belli e sereni: “Quando l’ho conosciuto, il mio bambino non aveva il senso delle favole!”. Mamma di C., 9 anni (bimbo adottato peruviano abbandonato a 2 mesi in un Istituto, arrivato in Italia a 4 anni). “Per molto tempo ho pensato che il mio bambino avesse perso la memoria, perché non aveva ricordi. Poi ho capito che la memoria si attiva se permette il recupero di buone cose e lui non aveva buone cose da ricordare dell’Istituto…”. Mamma di G.

Il P.A.S. contribuisce, grazie alla figura del mediatore e alla potenza della mente del bambino, all’apertura al mondo attraverso il padroneggiamento di strategie cognitive vincenti e spendibili. Prolunga inoltre quello spazio vitale creato dalla famiglia che permette un vissuto positivo che si trasforma in chimica cerebrale e favorisce una maggiore strutturazione del cervello e un incremento dell’intelligenza.
Il cervello infatti si sviluppa vivendo ed esperendo giorni fecondi, degni di essere ricordati e fatti fruttificare.
Parallelamente alla intelligenza, aumenta anche la fiducia del bambino in se stesso, l’apertura del campo mentale, la ricerca di alternative ottimistiche e l’apprendimento di una cultura e di una tradizione che mettono in profonda relazione il bambino adottato con i compagni e gli amici; la flessibilità che le buone abitudini cognitive permettono aumenta infatti la possibilità dell’incontro con l’altro (sentimento di appartenenza), pur rispettando le proprie peculiarità (mediazione della individualità e differenziazione psicologica).
Purtroppo il confronto con l’altro espone il bambino adottato, soprattutto se con caratteristiche somatiche diverse da quelle degli italiani, ad episodi di bullismo.
La prevaricazione e la svalutazione di identità che subiscono molti bambini adottati sono altamente pericolose per la loro capacità di apprendimento, già indebolita da tutti i fattori che sono stati citati. Inoltre questi episodi generano un’intensa sofferenza e una emarginazione rispetto al gruppo dominante. Il fenomeno del bullismo porta alla luce la fondamentale importanza della creazione di un reale clima di ascolto delle specificità di ciascun bambino, nel rispetto delle storie personali.
Quando è possibile è utile e consigliabile l’applicazione del P.A.S. nell’intera classe del bambino, in modo che tutti i compagni possano beneficiare di una alfabetizzazione emotiva che favorisca il rispetto e l’altruismo, l’empatia e la corretta espressione delle emozioni che ogni bambino prova, soprattutto di quelle negative.

Il mediatore e la virtù bambina

Ho sempre pensato al mediatore come ad un cercatore di speranza, soprattutto quando si lavora con un piccolo ferito dalla vita e dall’abbandono.
La capacità di speranza nelle infinite capacità di miglioramento dell’uomo è una virtù fondamentale per il mediatore, ed è forse la caratteristica che lo differenzia rispetto a molte visioni di altri esperti educativi (riporto da dialoghi che tutti noi abbiamo almeno una volta nella vita udito: “Che cosa pretendi? E’ un bambino con serie difficoltà, accettalo così com’è”, “Lo farai soffrire continuando a chiedere cose che non ti può dare”, “Con tutti i problemi che ha avuto per forza è stupido, non c’è rimedio!”, “Ma… migliorerà o rimarrà così per tutta la vita?!”e via così).
La speranza è una virtù bambina
[9]che permette la fiducia nelle piccole cose, nei piccoli progressi, nei germogli e nel bagliore fioco e senza speranza non si può accompagnare il bambino in una relazione che aiuti a reincantare la vita, ad avere fiducia nelle proprie possibilità.
Accanto alla speranza è fondamentale il coraggio di vegliare sulle gemme, spesso in solitudine, sui primi segni delle cose nuove che nascono e di non attendere l’orizzonte chiaro ma tanta luce quanta ne serve al primo passo. Il lavoro con i bambini con esigenze speciali, di qualunque natura esse siano, implica anche il rispetto che si deve alle cose velate e profetiche della vita; tanti aspetti nei bambini sono inizialmente a livello di profezia, di possibilità non ancora realizzata, di promessa alla cui realizzazione il mediatore può e deve credere.
Invece spesso si chiede ai bambini determinati punteggi nei test, nel QI, nell’adeguatezza a situazioni non rispettose delle loro esigenze, senza la capacità di affiancarsi a loro e camminare insieme, con obiettivi ben stabiliti ma anche con la voglia di lasciarsi interrogare e modificare noi stessi per primi dalla relazione inedita che stiamo vivendo con quel piccolo.
La modificabilità e la flessibilità vengono stimolate spontaneamente anche nel mediatore, perché il percorso del bambino di fronte a noi rispecchia una variegata gamma di esperienze che ci appartengono: la difficoltà, il fallimento, il recupero di energia e fiducia, la scoperta di strategie per superare il dolore e aumentare il benessere.


Concludo con una poesia di Martin Luther King, augurio per i nostri bambini ma anche per ciascuno di noi:

Se non puoi essere un pino sul monte
sii una canna nella valle;
se non puoi essere albero
sii un cespuglio
ma sii la migliore canna sulla sponda del ruscello,
il migliore piccolo cespuglio nella valle.
Se non puoi essere autostrada
sii un sentiero;
se non puoi essere il sole
sii una piccola stella,
ma sii sempre il meglio di ciò che puoi essere.
Cristina Cattini laureata in Scienze dell’Educazione, applicatrice e formatrice Feuerstein, dopo aver lavorato nel campo del sostegno scolastico a bambini e ragazzi disabili, si è dedicata all’applicazione a tempo pieno del Metodo Feuerstein con persone di ogni età (bambini, adulti, anziani). Nell’ottica della piena valorizzazione degli ambienti modificanti, in particolare della famiglia, ha creato a Modena il “Gruppo Genitori Mediatori”, da cui è nata “Meteaperte, Associazione per il pieno sviluppo e potenziamento delle persone con abilità differenti”.

BIBLIOGRAFIA

· Bertolini P, (1996), “Dizionario di pedagogia e scienze dell’educazione”, Zanichelli, Bologna
· Farneti A, (1998), “Elementi di psicologia dello sviluppo. Dalle teorie ai problemi quotidiani”, ed. Carocci, Roma
· Bowlby J, (1989), “Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento”, Raffaello Cortina Editore, Milano
· Kopciowski J, (2007), “Migliorare se stessi per ottenere di più. Riflessioni teoriche e proposte operative secondo il pensiero di Reuven Feuerstein”, ed. Koinè, Roma
· Kopciowski J, (2007), “Il recupero ed il potenziamento delle capacità mentali dei bambini nell’adozione”, rivista Minorigiustizia numero 2, Franco Angeli editore
· Vanini P, (2003), “Potenziare la mente? Una scommessa possibile. L’apprendimento mediato secondo il metodo Feuerstein”, Vannini Editrice, Brescia
· Polli L, (2004), “Maestra sai… sono nato adottato”, Casa Editrice Mammeonline
· AA.VV. (2004), “Mille e Mille modi di amare. Le fiabe del filo invisibile”, Casa Editrice Mammeonline
· Perna G, (2008), “La formula dell’intelligenza. Come scoprire e usare tutte le forze della mente”, San Paolo, Milano
· Newton Verrier N, (1993), “La ferita primaria. Comprendere il bambino adottato”, gruppo editoriale il Saggiatore, Milano
· Ronchi E.M., (2008), catechesi quaresimali sulla Speranza, Basilica di Sant’Ambrogio, Milano

SITOGRAFIA
· Sellini F, (2008), articolo “La Sindrome di Stoccolma…post-adottiva!”,
www.mammeonline.it
· www.icelp.org
· www.unachiaveperlamente.eu
·
www.ilresalomoneeilsuocalzolaio.blogspot.com




[1] Feuerstein e coll., 1980
[2] Feuerstein e coll., 2003
[3] Kopciowsky J. (2007), “Migliorare se stessi per ottenere di più. Riflessioni teoriche e proposte operative secondo il pensiero di Reuven Feuerstein”, ed. Koinè, Roma
[4] Kopciowski, 2007, p. 56
[5] Kopciowski J, (2006), articolo “Il recupero ed il potenziamento cognitivo delle capacità mentali dei bambini nell’adozione”
[6] Sellini F, (2008), articolo “La sindrome di Stoccolma… Post-adottiva!”, www.mammeonline.it
[7] Il bonding è un insieme di eventi fisiologici, psicologici e spirituali che iniziano nell’utero materno e continuano nel periodo post-natale, determinando l’attaccamento vitale fra la madre e il suo bambino.
[8] Il concetto di attaccamento si crea e si imprime attraverso tutte quelle manifestazioni che portano il bambino a ricercare il contatto con la madre aggrappandosi a lei, cercandone lo sguardo, avvicinandosi.
[9] Ronchi E. M., (2008) conferenze sulla Speranza, Basilica di Sant’Ambrogio, Milano

Organizziamo punti ed emozioni






Paola Cordenos
Maria Sasso
Docenti della Scuola Media Statel “Amalteo- Tommaseo” di San Vito al Tagliamento- Pordenone







L’alunno E.N., inserito nella classe prima, fin dai primi mesi dell’anno scolastico ha dimostrato un lento ritmo di apprendimeno e difficoltà di concentrazione ed attenzione, distraendosi spesso e creando occasione di disturbo alle lezioni, cercando di coinvolgere i compagni.
In questa situazione i docenti si sono attivati in un controllo frequente della partecipazione e dell’impegno sollecitando i suoi interventi, che però si sono rivelati spesso poco pertinenti.
Nell’affrontare il lavoro in classe, E. si attiva con fatica e, solo dopo numerose sollecitazioni, apre i quaderni ed i libri, nonostante le numerose esortazioni a trascrivere appunti di spiegazioni e schemi sul quaderno. E. si distrae e, quando la lavagna deve venir cancellata per continuare a svolgere ulteriori esercizi, egli è sempre in ritardo e persino quando l’insegnante, dopo aver fatto presente che la spiegazione alla lavagna va trascritta sul quaderno esortando tutti al controllo del proprio lavoro, re-illustra i passi fondamentali della lezione con richieste ai compagni di delucidazioni e/o piccoli esercizi mentali per dare a lui il tempo di trascrivere il tutto, egli si deve spesso ancora attivare. Talvolta , se si sente sollecitato o, a suo parere, incalzato, all’ennesimo richiamo sbuffa e si rifiuta di lavorare.
Piuttosto disorganizzato, si è spesso presentato a scuola con i compiti eseguiti in modo superficiale, ed anche privo di alcuni materiali ed attrezzi.
Nella prima parte dell’anno scolastico è stato necessario, inoltre, ribadire più volte l’orario di entrata del mattino, in quanto egli non era presente al suono della campanella assieme ai suoi compagni e spesso li ha raggiunti in un secondo tempo in classe (talvolta con l’occhio all’orologio ed esclamando:”Non sono ancora le otto e cinque, perciò non devo giustificare il ritardo…!”). Solo nella seconda parte dell’anno scolastico si è ottenuto che arrivasse in classe insieme con i suoi compagni.
L’impegno domestico è stato discontinuo e molto superficiale, solo nell’ultimo periodo si è impegnato con regolarità grazie al maggior controllo esercitato dalla famiglia.
D’altra parte, non lavorando in classe, il lavoro a casa diventava estremamente difficoltoso e si otteneva da E di avere svolto solo qualche esercizio a completamento sul libro,tabelle per lo più già strutturate, in quanto non avendo schemi di riferimento, sia i problemi di matematica, che i vari esercizi di grammatica in L1 o L2, si riducevano a qualche piccola operazione svolta sul quaderno, senza poter identificare talvolta un’analisi dei dati e un procedimento chiaro.
La sua preparazione in ingresso risultava lacunosa, non tanto per le conoscenze, quanto per l’approccio al lavoro scolastico, dimostrandosi poco motivato e di una certa qual sopportazione, considerando spesso anche le fasi operative e sperimentali, che solitamente riscuotono successo tra gli alunni, faticose e poco interessanti… Nelle attività laboratoriali, E. non prendeva appunti, faticava a seguire la lezione e spesso giocherellava con i materiali, suoi o dei vicini di banco.
Già all’inizio dell’anno scolastico la famiglia di E. è stata convocata, per esporre la situazione del ragazzo sia in relazione ai frequenti ritardi, che alla scarsa autonomia.
In quelle occasioni la madre ha riconosciuto di non averlo aiutato molto a crescere in autonomia e di averlo, anzi cresciuto tra mille coccole, come un uccellino nella bambagia. Si è concordato di affidargli dei piccoli compiti anche domestici, da svolgere entro tempi stabiliti. Dal canto loro, sul fronte scolastico, i docenti, per non riprenderlo in continuazione e per salvare la sua immagine di fronte ai compagni, hanno deciso di affiancargli dei compagni particolarmente disponibili all’aiuto, ma E. si è spesso dimostrato insofferente e non sempre ha colto la disponibilità ricevuta.
Ai genitori veniva, d’altra parte, chiesto un controllo sistematico del diario, del libretto personale, dei quaderni, dell’esecuzione dei compiti, dato che l’impegno era discontinuo e superficiale in molte discipline e che le varie annotazioni e gli avvisi mandati a casa sia sul libretto personale, che sul diario, che sui quaderni, non risultavano firmati dagli stessi.
Ulteriori convocazioni si sono succedute nel corso dei mesi a dicembre, a marzo, in aprile, a maggio, per consegnare le schede di valutazione, per discuterle, per osservare insieme eventuali cambiamenti.
In effetti qualcosa cominciava a cambiare: prima di Natale era iniziato il breve ciclo di incontri pomeridiani sull’applicazione del Metodo Feuerstein, al quale E. veniva abbastanza volentieri: lì non si sentiva valutato, non c’era il registro, non c’erano i voti, non si doveva rispondere “azzeccando” la soluzione, ma bastava alzare la mano, dopo aver pensato un po’, ma soprattutto: NON C’ERANO TEMPI, NE’ SCADENZE PRESTABILITE! “Un momento, sto pensando” è stata la più bella scoperta fatta da E. :nessuno poteva più obiettargli nulla. Finalmente i suoi interventi venivano ascoltati da tutti, nessuno più sorrideva di sottecchi, non lo prendeva in giro più nessuno. Con “Organizzazione dei punti” riusciva a tirare fuori le figure,”EUREKA!” la consegna era eseguita, l’insegnate era contenta! E. stesso era contento, anche lui poteva farcela!
La sua prima lode pubblica e i compagni lo guardavano con stupore .
Intanto le mattinate a Scuola si succedevano tutte più o meno uguali, ma quegli incontri del martedì pomeriggio erano fibrillanti.
Tutti facevano quasi a gara per sbracciarsi e ricevere la parola, tutti volevano dire la loro opinione e aspettavano con fremito quegli attimi di attesa per poter intervenire ed esprimersi... Le figure di “Organizzazione dei punti” venivano fuori anche a costo di “rompersi “ la testa, qualche volta.


Questo Professor Feuerstein le aveva pensate proprio tutte per farli diventare più intelligenti, anche a costo di sentirsi stupidi,talvolta. Ma poi il “bridging”? A che serviva? Per forza, bisognava portare a casa qualcosa! Cosa aveva imparato?
All’improvviso il gioco un giorno si era fatto strano e incomprensibile :una serie di immagini senza storie! Già “Immagini”. Ma quanta ricchezza è venuta fuori da quel bellissimo bambino grassoccio, sempre elegantissimo nei modi e nell’abbigliamento e rubicondo nell’aspetto. Un ragazzo d’altri tempi, senza arroganze, senza gli strattoni , tanto in uso da sembrare di moda, ma lui tanto all’antica, da sembrare venuto fuori da un vecchio romanzo e anche per questo guardato un po’ così dai compagni e dagli adulti ormai avvezzi a certi modi spicci e a corto di tempo, quasi senza volontà, aspettando di sentir dall’alto quel che si deve e quel che non si deve fare. Invece, di fronte alle “IMMAGINI” il dolce E. tira fuori tutta la capacità di osservazione che ha e strabilia tutto il gruppo con le sue osservazioni da piccolo adulto, come se fosse stato fino ad allora in un angolo semplicemente ad ascoltare ad osservare il mondo. Finalmente i compagni non solo lo ascoltavano, ma anche lo rispettavano e addirittura sulle sue osservazioni erano utili perchè “imbastivano” le loro.
Al mattino E. sembrava più attento in classe, soprattutto durante le lezioni di inglese, la lingua sembrava aver schiarito le nebulose, cominciava ad alzare la mano per domandare come si dice questo e come si dice quello, addirittura ha cominciato ad eseguire i compiti a casa, dopo che in classe aveva chiesto di essere coinvolto in qualche dialogo di esercitazione. Chiedeva conferma di aver compreso bene le consegne per casa e, addirittura all’insegnante domandava di dettare ancora una volta, per piacere, la consegna degli esercizi per essere certo di aver compreso bene.
Finalmente non dimenticava più il libro, non dimenticava più i compiti, ricordava le parole, giocava con i verbi e memorizzava i dialoghi e le funzioni. Certo i tempi… i tempi E. li applicava pensando di applicare tacitamente il motto che ormai era suo:”Un momento, sto pensando…”. I voti,però erano migliorati, (almeno in inglese) e anche la stima di molti compagni di classe! Le sue osservazioni venivano ascoltate e rispettate, non più derise! E: sembrava più sicuro di sé, anche quella volta che era andato a letto tardi di domenica sera e al mattino ricordava solo mezzo dialogo. Aveva avuto il coraggio di scusarsi apertamente con l’insegnante di fronte alla classe, che naturalmente ha perdonato la “scappatella” .
Già, ma tutto questo era accaduto solo per un po’ e quasi esclusivamente in inglese: quando la prof ha smesso di tenere il Corso sull’applicazione del Metodo alla fine del primo quadrimestre, sono saltati fuori pregi e difetti del ragazzo, in modo stridente come non mai, e i professori si sono spaccati su due fronti: quelli pro E., che avevano notato cambiamenti nel suo comportamento e nell’atteggiamento di fronte allo studio e agli impegni, e quelli per i quali ancora il ragazzo non si svegliava.
Infatti il suo atteggiamento era davvero duplice: E. lavorava e si applicava se motivato e se si sentiva atteso e stimolato, non si attivava, se non si sentiva accolto e atteso.
Alla chiusura del primo quadrimestre la Scuola non poteva più finanziare il Metodo, (erano state svolte ormai sedici ore e non c’erano più soldi da poter erogare per quel progetto!) ma E. aveva capito come funzionava la sua mente e quali erano i suoi tempi. Per il secondo quadrimestre la prof di inglese ha costantemente richiamato in classe gli insegnamenti e le considerazioni dei ragazzi, tirando ogni volta la moneta a “testa o croce” sperando di aver lasciato il segno necessario nei ragazzi come lui a portare avanti la fine dell’anno scolastico. In chiusura di scrutinio qualcuno ha rilevato che nel frattempo E. non aveva riportato grandi cambiamenti e ne proponeva la ripetenza: i compiti non erano stati sempre svolti, aveva continuato a dimenticare materiali a casa, le note e gli avvisi non erano stati mostrati ai genitori, anzi spesso tenuti nascosti (E. aveva cominciato a difendersi, evidentemente,ndr..). Allora il Dirigente che aveva ascoltato tutti e che nel frattempo aveva tenuti il conto dei pro e dei contro, ha proposto la votazione per alzata di amo: su dieci insegnamenti, solo quattro docenti lo avrebbero mantenuto in classe prima, mentre gli altri hanno deciso che meritava la fiducia di incontrarlo in seconda, con l’impegno, però da parte della famiglia di continuare ad affidargli piccoli lavoretti domestici da svolgere in assenza dei genitori, mentre sono al lavoro e, da parte della Scuola di aumentare per il prossimo anno scolastico le ore da dedicare al Metodo Feuerstein, che tanto ha entusiasmato ragazzi e genitori.


Degrado sociale e deprivazione culturale:
la scuola come punto di riferimento

Paola Tedeschi





Il mio intervento verterà sulla sperimentazione del Metodo Feuerstein in una scuola media di Napoli, in una zona fino ad un decennio fa molto attiva dal punto di vista economico, sede da secoli di un mercato fiorente, denominata infatti Piazza Mercato. Attualmente le attività commerciali sono per la maggior parte chiuse, gli abitanti versano in situazioni economiche critiche perché le precedenti attività dell’indotto sono sparite, funzionano invece il commercio illegale di sostanze stupefacenti, di merce contraffatta, la prostituzione e gli allevamenti di pitbull nei garage per i combattimenti, oltre al traffico clandestino di animali esotici per le ville dei camorristi.
Il quartiere è una sorta di zona off limits, non ho mai visto un poliziotto o un vigile e tutti agiscono indisturbati, con il consenso degli abitanti. Vige un codice di regole non detto.

Modalità di intervento

· Inizio attività 15/01/08
· Termine attività 30/05/08
· Orario: 1 ora e 30 ad intervento due volte a settimana, poi modificate in 1 ora ad intervento su richiesta dei docenti
· Le classi sono 3, una prima e due seconde medie
· Gli interventi si sono attuati durante l’orario scolastico in compresenza dei docenti, senza Tutoraggio e/o Referenti per il Progetto nominati dalla Scuola
· Le nostre attività sono state rivolte solo agli alunni, come da progetto
· E’ stata prevista un’attività di counseling e sensibilizzazione al Metodo Feuerstein per i docenti ed è stata attuata dalla Dott. Jael Kopciowski.

Prime osservazioni

Mancata scolarizzazione, nel senso della disciplina e del saper stare in classe
Individualismo, incapacità di condividere spazi fisici ed emotivi
Assenza di linguaggio verbale corretto e di parole
Utilizzo del body language, dello sguardo, soprattutto per comunicare aggressività
Comunicazione impulsiva, controllo delle emozioni limitato
Mancanza di interessi, rassegnazione, senso di impotenza
Assenza di pianificazione, incapacità di andare oltre al qui ed ora


E’ necessario un intervento orientato sia alla sfera cognitiva che a quella emotiva, e il PAS lavora anche sull’aspetto cognitivo delle emozioni. “Per formare la personalità di un ragazzo bisogna lavorare su elementi stabili e le strutture cognitive sono stabili, invece le emozioni cambiano.” (Rafi Feuerstein)
Anche per comprendere l’etica sociale e i valori morali ci vuole una struttura cognitiva, come per decidere di aderirvi.

Non c’è bullismo, l’aggressività è espressione di un disagio profondo.
[“Bullismo”: una sottocategoria del comportamento aggressivo caratterizzato da alcune specifiche modalità dell’azione, come l’intenzionalità, cioè la deliberata volontà di recare danno in varie forme, fisica, psicologica o sociale, ad una persona deliberatamente designata come vittima.
Nel caso del bullismo, l’uso della propria forza o del proprio potere viene indirizzato per intimorire o danneggiare una persona più debole o considerata tale. (Olweus 1986,1991).

Il Prof. Rafi Feuerstein nel suo recente convegno a Garbagnate Milanese, parlando del fenomeno del bullismo, ha presentato un’analisi della comprensione sociale elaborando gli studi del sociologo Sealman:

Stage 0: fase egocentrica. Non c’è differenziazione sociale, non c’è differenza tra interpretazione degli eventi soggettiva ed oggettiva.. C’è solo la mia interpretazione della realtà.

Stage 1 – 3: cammino emotivo e cognitivo che ci permette di raggiungere la maturità sociale descritta nell’ultimo livello.

Stage 4: prospettiva sociale in cui il sistema a cui apparteniamo coinvolge molto più della famiglia, della comunità…La modalità di comportamento è sociale, non personale. C’è un contratto sociale non sempre esplicitato, a cui riferirsi in caso di conflitto.

I ragazzi sono a livello 0 nelle relazioni personali, ma fanno riferimento direttamente al livello 4, in modo inconsapevole e non interiorizzato, in caso di conflitto.

L’ambiente di Piazza Mercato è chiuso sia dagli edifici che lo delimitano fisicamente che dallo speciale contratto sociale (di matrice camorristica?). Si nota però una sorta di auto ghettizzazione, il fuori è diverso e i ragazzi si sentono a disagio. Sentono di non avere spessore e dignità nella società al di fuori del loro quartiere, si sentono perdenti perché non sono in grado e non vogliono mettere in atto strategie considerate da persona debole, costa loro troppa fatica. Ciò ha a che fare anche con la perdita della loro identità sociale, come dirò dopo.
Non riconoscono un sistema sociale diverso dal loro, quindi lo aggrediscono.
Il problema è che tra lo stage 0 e lo stage 4 c’è un vuoto, un vuoto dovuto alla mancanza di relazioni e di esperienza di relazioni positive con la famiglia, i propri pari, l’autorità da loro non riconosciuta.

Le famiglie. Ai nostro occhi con un comportamento piuttosto indecifrabile, contro lo stato ma nello stesso tempo piene di pretese verso le istituzioni, violente verso i figli che non vanno bene a scuola, ma pronte a proteggerli in caso di filoni e assenze, comprano ai figli cellulari e vestiti di marca e danno loro soldi e motorino, ma non li vogliono a casa dopo scuola e li aspettano direttamente per cena. Quasi tutte le famiglie, sempre dai racconti dei ragazzi, sono allargate: genitori separati non ufficialmente che convivono con i nuovi compagni e i nuovi figli, e i ragazzi sballottati tra uno e l’altro o i nonni o i vicini di casa (a pagamento), tutto sempre rigorosamente all’interno del rione. Per non parlare di chi ha la madre prostituta o il padre spacciatore.
Dai loro discorsi emergono comunque spesso storie di abbandono familiare, nel senso di genitori che ignorano i propri figli.

Ci siamo poste alcuni obiettivi:

Facilitare l’unità e la coesione del gruppo classe come piccolo sistema sociale in cui darsi regole condivise, imparare a seguirle, costruire relazioni in cui veicolare le proprie emozioni, gestirle, riconoscere e rispettare quelle altrui. (Rinforzare la capacità di una persona di capire, gestire, esprimere gli aspetti sociali ed emotivi del proprio vissuto. Con Identifica le Emozioni e con l’analisi delle diversità presenti nelle classi).
Motivare i ragazzi alla ricerca di risultati e quindi alle strategie, a focalizzarsi sulle proprie azioni e poi alla pianificazione e al conseguimento di scopi. (Con Organizzazione Punti). Ma abbiamo dovuto partire dalla mediazione del BISOGNO di ricercare risultati perché ci siamo trovate di fronte all’abulia, all’inerzia, all’apatia.
Rendere i ragazzi consapevoli dell’esistenza di un mondo e di una società non divorante al di fuori del loro quartiere. Lavoro molto delicato perché non può fermarsi al semplice confronto e alla percezione delle disuguaglianze, siano esse valutate positivamente o non.
La mediazione va oltre e coinvolge sia il sistema valoriale che l’apprendimento sociale, e veicola il sentimento di appartenenza ad un mondo che non è solo il proprio quartiere.
Promuovere l’individualità e l’identità. L’individualità vs l’individualismo, il valore della propria identità vs l’egocentrismo.
Non mi dilungo sulle funzioni cognitive necessarie a percepire l’esistenza di un sé, mi soffermo sugli aspetti della mediazione.
Prima fra tutte la mediazione del senso di competenza, strettamente legata alla percezione che il ragazzo ha di se stesso.
Ritorno un’altra volta alla famiglia: mancanza di cure e attenzioni, affetto mediato da beni di consumo e in ultimo un senso di protezione che sembra essere più un senso di “riparazione” alle cosiddette offese che subiscono i ragazzi dai propri pari e dall’autorità misconosciuta. Il messaggio veicolato da questo comportamento è una sottolineatura del codice sociale ed i ragazzi non si sentono unici per i propri genitori ma parte di un meccanismo in cui gli stessi sono imbrigliati.

Ci siamo trovate di fronte a ragazzi e ragazze con bassa autostima, incapaci di liberarsi dal ruolo di perdenti, fallimentari a scuola, senza convinzione di potercela fare e soprattutto senza la consapevolezza di avere delle possibilità. Senza la capacità e il DESIDERIO di investire su se stessi per proiettarsi nel futuro.
In questo contesto mediare l’individuazione e la differenziazione psicologica è un gradino ancora precedente rispetto al senso di competenza.
Zygmunt Bauman: “Si diventa consapevoli che l’appartenenza e l’identità non sono scolpite nella roccia, non sono assicurate da una garanzia a vita, sono negoziabili e revocabili. I fattori cruciali per entrambe sono le proprie decisioni, i passi che si intraprendono, il modo in cui si agisce e la determinazione a tener fede a tutto ciò. In altre parole alla gente non viene in mente di avere un’identità finché il suo destino rimane un destino di appartenenza, una condizione senza alternative”.
Nella società di Piazza Mercato chi decide di “cambiare”, e si deve sentire consistente e compatto per poterlo fare, di non sottostare più alle regole imposte dall’ambiente, va incontro all’alienazione e all’esclusione; i ragazzi crescono con un sentimento di appartenenza molto forte e radicato perché l’appartenenza coincide con la loro identità.
Comunque i ragazzi della scuola una confusa affermazione della propria identità la manifestano, in modo non gestito emotivamente, mediante una strenua difesa del proprio territorio, inteso proprio come spazio fisico e vitale all’interno dell’aula.

Sembra ingenuo da parte nostra, ma abbiamo scelto di far vedere ai ragazzi il film “I dieci comandamenti” di De Mille e utilizzato la figura di Mosè come mediatore del sapersi mettere in discussione, della ricerca di nuovi valori, della modificabilità umana e dell’elaborazione di una nuova identità. Le difficoltà, la paura e i blocchi iniziali del popolo ebraico ci hanno dato l’opportunità di discutere l’ERRORE come risorsa.

Criticità

Progetto svolto durante l’orario scolastico (problemi organizzativi)
Compresenza con i professori (invasione del loro spazio)
Tranne tre eccezioni, tutti i docenti demotivati o critici
Assenza di Tutor o Referente del progetto (troppe responsabilità)
Preside e Vicaria totalmente assenti (assenza di collaborazione)
Aspettative miracolose nel Metodo per ignoranza dello stesso
Mancata sensibilizzazione delle famiglie

Domanda: la scuola può essere un punto di riferimento quando ai ragazzi mancano riferimenti reali e, soprattutto, seri e responsabili?
Sicuramente, ma non in presenza delle criticità soprascritte e soprattutto non in presenza di un dirigente scolastico che organizza ancora “classi speciali”: le classi che abbiamo seguito noi erano composte solo da ragazzi ripetenti o con difficoltà di apprendimento dalle elementari, non avevano in programma gite scolastiche e progetti di manualità, musica o altro come le altre sezioni. A maggio sono state spostate addirittura in un altro edificio, senza segreteria o altro punto di riferimento.
E l’ambiente modificante in questo caso dov’è?
Come si può pretendere di modificare gli alunni di una scuola ingessata, se questa non è disponibile a modificarsi?




Zygmunt Bauman: Intervista sull’identità, Ed. Laterza
Rafi Feuerstein: convegno Nuove frontiere del Metodo Feuerstein, aprile 2008, Garbagnate Milanese (Mi)
Jo Lebeer, G. Schnitzer, C. Andries: Usefulness of cognitive intervention programmes for socio-emotional and behaviour problems in children with learning disabilities, Journalof Research in special education needs, n. 3, 2007
Paola Vanini: Potenziare la mente? Una scommessa possible, Vannini Editrice
Jael Kopciowski: Migliorare se stessi per ottenere di più, Ed. Koinè








VEDERE E GUARDARE







Se ci interroghiamo sulla differenza tra il vedere e il guardare, siamo spesso portati dal linguaggio comune ad associare il vedere alla superficialità, alla “prima occhiata”, un evento che coinvolge solo gli occhi e non la mente, attribuendo invece al guardare una valenza di comprensione più profonda rispetto a ciò che ci sta davanti, un processo che coinvolge occhio, mente e cuore.
Ma davvero è così?
Il nostro lavoro con persone normodotate e con difficoltà visive ci ha indotto a rivalutare il vedere.

Guardare presuppone il pensiero, in un processo che inizia dall’input visivo, per poi proseguire con l’elaborazione da parte di mente, cervello e cuore.
Il nostro bagaglio esperienziale, la nostra individualità, sono un filtro importante, suscettibile di rielaborare lo stimolo iniziale, insieme all’ambiente che ci circonda e di cui siamo permeati.

E vedere? Vedere è mera ricezione dello stimolo visivo?

Vedere.
Aprire gli occhi. Come un’esplosione:
il primo raggio di sole al mattino,
il colore delle foglie secche, l
e gocce di pioggia.

Vedere la luce, l’aria, il colore.


Vedere il mare per la prima volta,
vedere il David di Michelangelo nella sua magnificenza,
vedere l’ultimo attimo della propria vita.
Vedere e stupirsi.

Come un tuffo al cuore.
Emozionarsi, rimanere lì a bocca aperta.
Eccolo, l’attimo creativo.
Ecco IL momento della vita, quello che mai più si potrà ripetere. Mai luce sarà uguale alla prima luce di quell’attimo. Mai emozione sarà uguale, di fronte ad una cosa che viene vista per la seconda volta.

Permettetemi una metafora: il vedere passa dall’occhio al cuore. Diretto, senza il filtro del cervello, donando uno stupore istantaneo.
Il vedere non genera opinione.

Pensiamo ad un ambito noto a tutti: il cinema. Il grande cine-occhio vede o guarda? Riporta o traduce? E lo spettatore, vede o guarda? Qual è la via migliore?
Ovviamente non intendiamo negare l’evidenza del coinvolgimento del cervello nella percezione visiva, solo sottolineare la differenza., sia come attività che come impatto emotivo, tra uno sguardo “che vede” e uno sguardo “che guarda”.

Immaginiamo di vedere un film. Prima di guardare, soffermiamoci a vedere, a gustare la bellezza delle immagini per quello che sono.
Ecco lo sguardo “puro”, non condizionato dal pensiero che fa associare le immagini non a ciò che sono ma soprattutto a ciò che significano. Lo sguardo puro è quello che apprezza immagine, fotografia, luce e colore.

Guardiamo il cinema, come fecero gli spettatori del film dei fratelli Lumière nel 1896, che fuggirono addirittura dalla sala, credendo che la locomotiva proiettata fosse vera. Questo è un attimo creativo.

Rivalutiamo l’occhio, non a discapito della mente, ma a favore dello stupore e dell’emozione.

Cosa succede quando si lavora con la disabilità visiva? Bisogna per forza rinunciare allo stupore del vedere per concentrarsi soprattutto sul processo del guardare?

AMIDEVI è un’associazione nata proprio da quesiti come questo, dalla necessità di non dichiarare a priori che al mondo della disabilità visiva fossero precluse determinate esperienze, dal desiderio di cercare strade diverse, differenti percorsi per arrivare piuttosto a riformulare gli interrogativi di partenza.
In quanti modi diversi si può esperire il vedere?
Come può un non vedente assaporare le stesse emozioni del nostro “vedere per la prima volta”?

Per intraprendere un percorso di questo tipo, ci siamo spesso interrogati su come i non vedenti percepiscono e rielaborano gli stimoli. Per poter lavorare sul vedere di chi non vede con gli occhi, insomma, abbiamo dovuto cercare di capire COME si possa vedere con le mani.
Ecco da dove nasce l’esigenza della mediazione, dalla necessità di rendere accessibile un mondo prevalentemente visivo a chi non usa la vista. In sintesi, la necessità di mediare tra il vedere e il non vedere.

Ecco che il vedere diventa cogliere, assaporare tante e varie fonti di esperienza, per arricchirsi, per esplorare, per conoscere, per ampliare i propri orizzonti.
Il percorso di formazione dei disabili della vista sovente soffre della limitatezza di tali orizzonti, vedendo le figure coinvolte troppo spesso rinunciatarie rispetto a numerosissimi input.
Ecco allora che sulla disabilità si innesta l’handicap, inteso come l’insieme di barriere che la società pone a priori al soggetto disabile in quanto tale.
Secondo noi, è invece la società stessa a dimostrare tutta la propria disabilità, nel momento in cui non cerca di far fronte ai limiti esistenti con una flessibilità di strategie.

AMIDEVI, nei suoi 10 anni di attività, non ha la presunzione di aver inventato nulla, ma di aver raccolto esperienze e strumenti, in una sinergia volta alla ricerca di nuove strade.
Il mondo del deficit visivo è tanto variegato quanto complesso, rendendo indispensabile la personalizzazione dei percorsi.
Ogni individuo è, proprio in quanto tale, unico ed irripetibile, va cioè colto nella propria specificità, rapportata alle caratteristiche del suo ambiente di provenienza.
Ad esempio, nel caso di Shruthi, con una grave ipovisione monoculare, adottata in India all’età di 4 anni, con un passato sconosciuto, che in ogni caso non sarebbe stata in grado di raccontare, i dati oggettivi di partenza erano proprio la disabilità visiva e la mancanza di un percorso conosciuto che costituisse un terreno comune utile ad instaurare comunicazione e condivisione all’interno della nuova famiglia e del nuovo ambiente.

La strategia di mediazione è stata chiedersi quali stimoli, nel suo paese natale, fossero stati preponderanti, sia nello sfruttare il suo residuo visivo che, di conseguenza, nello stimolarne i processi cognitivi.
La scelta è stata puntare, paradossalmente, sull’uso del colore, in assoluto contrasto con una patologia conclamata che prevede, tra le altre caratteristiche, l’acromatismo.
Il colore è diventato l’elemento preponderante nell’arredamento, nell’abbigliamento, nella scelta degli oggetti e degli alimenti, è entrato a far parte delle fiabe e del dialogo quotidiano, per essere trasferito poi alle attività più strettamente cognitive. Va precisato che, contro ogni diagnosi, Shruthi ha ben presto dimostrato di percepire non solo il colore, ma un’ampia gamma di sfumature.

Ecco allora che per ogni lettera dell’alfabeto è nata una fiaba,




in cui ciascuna lettera si è vestita di un colore diverso: ciò ha reso possibile, a fronte di una visione che rendeva impossibile una percezione chiara delle lettere stesse, costruirne un’immagine mentale sempre più precisa. Dalle fiabe si è passati così alla lettura e alla scrittura.


Ben presto ci si è però scontrati con le richieste dell’ambiente scolastico, con consegne del tipo “Descrivi ciò che vedi dalla finestra”.
Shruthi, consapevole dei propri limiti, ha suscitato una reazione irata da parte della maestra rispondendo “Nulla”. La maestra ha iniziato a descriverle il paesaggio fuori dalla finestra. Shruthi allora ha asserito “Cambiamo la consegna. Descrivo quello che la maestra vede fuori dalla finestra”.
Alla fine, insieme, abbiamo ricostruito tridimensionalmente ciò che Shruthi avrebbe dovuto vedere fuori dalla finestra, per permetterle di descriverlo, eseguendo la consegna.
Ove possibile, un’esperienza multisensoriale è servita ad arricchire l’immagine mentale degli oggetti.


Ovviamente non è stato possibile procedere così per ogni situazione in cui Shruthi doveva crearsi immagini di oggetti o ambienti che non le erano direttamente percepibili. Ancora una volta il criterio usato è stato quello del colore: la gamma dei verdi, ad esempio, è servita a differenziare le varie tipologie di alberi e ad acquisire come le chiome differissero nella forma e nella dimensione.

Un altro scoglio importante è stato lo studio della storia. Come tutte le persone con un passato difficile, Shruthi aveva grosse difficoltà ad andare a ritroso nel tempo. Ancora una volta immagini e colore sono stati i canali vincenti: per studiare Napoleone, ad esempio, si è scelta l’immagine iconografica classica dell’imperatore francese, collegata tramite frecce di diverso colore ai dati storici fondamentali da memorizzare.
Il dubbio rimaneva: si temeva che questi espedienti fossero solo superficialmente efficaci, ma che non fossero realmente suscettibili di stimolare l’elaborazione delle informazioni da parte di Shruthi. In seguito alla somministrazione dell’LPAD, tuttavia, si è riscontrato che gli schemi a blocchi colorati, che evidenziano i passaggi logici tra le singole parti, costituiscono effettivamente il materiale di studio più efficace per lei.

Un’altra delle attività di AMIDEVI , per le quali è diventata ormai conosciuta nel territorio, è il teatro, con un gruppo formato da ragazzi normodotati e con minorazione visiva.
Il teatro è forma di intrattenimento, di crescita, di aggregazione, di integrazione, ma soprattutto di intervento mediato mirato e personalizzato, volto al superamento di alcune barriere tipiche della disabilità sensoriale.
Infatti, grazie al supporto del personale specializzato e alla predisposizione di sussidi ad hoc, è stato possibile costruire un percorso individualizzato per i singoli “attori” al fine di realizzare un prodotto, come la rappresentazione finale, che creasse un clima di serenità tra i ragazzi, favorendo il superamento di alcuni vincoli che la disabilità può generare nel momento in cui ci si confronta con il mondo dei normodotati.
Una delle difficoltà principali per i non vedenti era la danza, il movimento a ritmo di musica. Abbiamo usato il metodo del Touch and Feel dell’Accademia Shree Ramana Maharishi di Bangalore: toccando il corpo dell’insegnante, il non vedente ne percepisce e memorizza il movimento.
Nel nostro laboratorio teatrale, dunque, i ragazzi normodotati hanno svolto la funzione di mediatori con i coetanei non vedenti, permettendo anche a loro di trarre piacere dal movimento a ritmo di musica. In questo caso, l’esperienza ha raggiunto il doppio obiettivo di permettere ai ragazzi disabili di danzare e di fornire ad entrambi un’esperienza condivisa, permettendo scambio e integrazione.

Un altro percorso importante per AMIDEVI è stato quello con Mirko: fino all’età di circa 5 anni è vissuto all’interno di una tenda ad ossigeno, alimentato grazie ad un sondino. Ha mosso i primi passi a 7 anni. Quando l’abbiamo conosciuto ne aveva 10, mangiava esclusivamente omogeneizzati, frequentava una struttura giornaliera, non era scolarizzato e aveva grosse difficoltà di comunicazione. L’ipotesi prevalente era che gli fosse precluso il percorso scolastico e purtroppo anche quello sociale. Secondo gli esperti non sarebbe mai stato in grado di leggere e scrivere, non avrebbe avuto un’autonomia personale. La sua grande passione per la musica, inoltre, costituiva agli occhi degli esperti una semplice passione, del tutto fine a sé stessa.
Uno dei primi passi è stato quello di spostare Mirko dalla struttura giornaliera ed inserito in 4^ elementare: aveva 11 anni e mancava di tutti i pre-requisiti che tutti i bambini dovrebbero avere.
È stato affiancato da un’insegnante di sostegno e da una mediatrice alla comunicazione, iniziando un percorso lungo, complesso, a volte difficile. L’unico canale per lavorare con lui era la musica, proprio quella passione che non doveva portarlo a nulla. E dalla musica siamo partiti.
Lentamente Mirko ha iniziato a riprendersi parte di quelle esperienze che era suo diritto fare. E a capire che poteva scegliere. L’abbiamo inserito in un laboratorio teatrale, con altri ragazzi minorati della vista e normodotati. Mirko riproduceva ad orecchio per noi qualsiasi melodia, mentre aveva grossi problemi a recitare anche una piccolissima parte.
Scoglio del suo percorso è stata la lettura in braille. Nei primi 2 anni Mirko ha seguito un percorso fatto per stimolare le sue mani e fare in modo che potessero percepire la scrittura braille, ma, se da un lato lo ha reso più autonomo, non lo ha però portato alla discriminazione delle scrittura. È stata sollevata l’ipotesi che fossero presenti danni cerebrali che gli impedissero di crearsi l’immagine mentale della posizione dei punti braille, possibilità subito esclusa in seguito ad una tac e una successiva risonanza magnetica. Partendo dunque dalla constatazione che nulla vietava a Mirko di essere come tutti i suoi coetanei, abbiamo cominciato con la stimolazione tattile, cosa che non accadeva normalmente, nemmeno per svolgere le azioni quotidiane, usando anche fogli con lettere in braille o realizzate con piccoli feltrino. Successivamente si è utilizzato il materiale di Passo Passo, contenente gli esercizi necessari a sviluppare sia la percezione tattile sia delle lettere che delle immagini.
Se da un lato tutto questo lavoro ha portato Mirko ad essere più autonomo sia dal punto di vista personale che nell’ambito puramente didattico, non lo ha però portato a leggere il braille.
Quando siamo venuti a conoscenza dell’esistenza del mouse tattile VTPlayer, abbiamo subito provato con Mirko, senza pensare quale miracolo sarebbe potuto accadere solo in pochi giorni.

Era fine luglio 2006 e dopo aver dato qualche indicazione a Mirko su come funzionava il mouse, ha voluto continuare in assoluta autonomia dimostrandosi oltretutto ampiamente soddisfatto perché finalmente anche lui, come gli altri ragazzi, poteva utilizzare il computer.
Forse nemmeno Mirko si era reso conto di quello che era accaduto e di quanto i puntini del mouse tattile che si alzavano, si abbassavano indicando destra – sinistra – alto – basso, avessero stimolato le sue mani e la sua mente.
Oggi Mirko, non è più un analfabeta, recita con grande bravura e piacere, frequenta il primo anno di scuola media superiore. Forse, ora che ha imparato a leggere, ha qualche possibilità in più per realizzare il suo sogno: frequentare il conservatorio.
Inserire parte finale Mirko definitivo da min 5.22 a 8.05

SPERIMENTAZIONE
Tanti anni di lavoro con bambini e ragazzi che non possono vedere con gli occhi ci hanno portati a cercare una casa dove potessero disporre di un ambiente familiare, accogliente e colorato, circondato da un piacevole giardino, dove i ragazzi potessero toccare, annusare, esplorare, dove fossero, in sostanza, circondati da tutti gli elementi che potessero aiutarli a costruirsi delle immagini mentali.
Così è nata S.Ph.e.R.A. onlus



Immaginare una scena è un po' come assistervi davvero. Questa affermazione richiama la straordinaria capacità del nostro cervello di creare rappresentazioni mentali in grado di riprodurre sostanzialmente la sensazione di vedere qualcosa con gli occhi. Possiamo guardare un film alla tv o seguire un «filmato» che appare solo nel nostro cervello.

Ed è proprio in quest’ottica che si è inserita la nostra esperienza con gli strumenti del Feuerstein Basic: lavorare con le immagini mentali delle persone con deficit visivo, per costruire un terreno comune, per capire come si può vedere con le mani e confrontarlo al veder con gli occhi, per avere uno strumento in più per comunicare, per fare esperienza ma anche per integrare due mondi diversi ma non irrimediabilmente lontani.

Tommaso Vecchi, professore di Psicologia Sperimentale all'Università di Pavia, usa in questo ambito il termine “imagery”, proprio nel senso di rappresentare la realtà attraverso le immagini mentali. Recenti ricerche effettuate dal prof. Vecchi e dalla sua equipe, hanno dimostrato come i non vedenti siano in grado di rappresentarsi mentalmente la realtà, giungendo pertanto ad affermare che la vista non è una condizione necessaria per tale capacità. Vedere con gli occhi e vedere con la mente, insomma, benché siano esperienze all’apparenza simili, si basano in realtà su meccanismi cerebrali diversi.
Anche i non vedenti si creano immagini mentali e, per quanto possa apparire sorprendente, le rappresentano “a colori”.

Uno dei laboratori proposti ai nostri ragazzi ad esempio, prevedeva di riprodurre “La poltrona rossa” di Picasso.
Utilizzando la stessa spiegazione, ogni partecipante ha usufruito di supporti diversi: fotocopie a colori per i normodotati, fotocopie ingrandite per gli ipovedenti, disegni a rilievo per i non vedenti. In quest’ultimo caso, in particolare, gli spazi sono stati riempiti con rilievi differenziati a seconda del colore da usare, seguendo il modello.
Questo laboratorio ci ha permesso di avvicinare anche i non vedenti all’esperienza del disegno, così importante per tutti i nostri bambini. Anche in questo caso, la mediazione è stata fondamentale e i risultati ottenuti sfatano, almeno secondo il nostro punti di vista, la convinzione che per applicare il metodo Feuerstein sia necessario saper usare un foglio e una matita.

La cecità, in ogni caso, sembra determinare alcune specifiche limitazioni nella capacità di crearsi rappresentazioni mentali del mondo: più cresce la complessità dell’immagine, più per il non vedente si allungano i tempi necessari al processo di elaborazione. Inoltre per una persona cieca è necessario poter manipolare attivamente. Secondo alcuni ricercatori, questi limiti vanno ricondotti alla mancanza di strategie adeguate a compensare il deficit visivo.
Per completare il quadro della situazione bisogna inoltre tener presente che vedenti e non vedenti utilizzano modalità diverse per esplorare la realtà: tattile e quindi sequenziale per un cieco, principalmente visiva, quindi globale per un vedente.
Anche i dati ricavati dalla neuroimmagine funzionale hanno dimostrato che ciechi e vedenti utilizzano le stesse strutture cerebrali quando sono impegnati a generare ed elaborare delle immagini mentali , ad esempio per seguire mentalmente un percorso.
Se quindi le maggiori difficoltà nei soggetti non vedenti sono, secondo i dati delle ricerche condotte dall’Università di Pavia, non imputabili a carenze oggettive ma ad una mancanza di strategie, come aiutarli a costruirle?
Questo è stato, in sostanza, il nostro interrogativo di partenza.

Per poter elaborare un adattamento tattile efficace degli strumenti grafici, abbiamo dovuto innanzitutto chiederci che criteri adottare per il disegno. Seguendo le linee guida contenute in “Disegnare per le mani” di F. Levi e R. Rolli, i disegni hanno rispettato i seguenti standard:
- semplificare l’immagine per evitare informazioni inutili e ridondanti;
- oggetti e persone identificati da elementi salienti che si ripetono sempre uguali per lo stesso oggetto;
- eliminazione della prospettiva perché non significativa al tatto;
- accostamento degli elementi in modo tale da permettere la comprensione delle proporzioni degli oggetti gli uni rispetto agli altri;
- evitare la sovrapposizione tra oggetti in quanto non comprensibile al tatto.


TRI-CHANNEL
Iniziare con il Tri-channel, dal punto di vista del disegno, è stato relativamente semplice e ci ha permesso di entrare in modo graduale nell’ottica del disegno realizzato per le mani. La componente visiva, infatti, è estremamente ridotta rispetto agli altri strumenti, fatta eccezione per la copertina.
Tale strumento inoltre richiede di percepire un oggetto in modo sequenziale utilizzando la modalità aptica attraverso la quale si può conoscere un oggetto attivando operazioni mentali che rendono la conoscenza più profonda e duratura.
In questo caso, infatti, le osservazioni principali nate dalla sperimentazione riguardano la rappresentazione della mano e dell’occhio. La percezione si presenta come completamente differente a seconda che l’esplorazione sia effettuata da un destro o da un mancino, in quanto la sovrapposizione della mano con il disegno è possibile solo se si tratta della medesima. Abbiamo provveduto quindi a realizzare due copertine, una rappresentante la mano destra, l’altra la sinistra.
Per quanto riguarda l’occhio, invece, abbiamo dovuto aumentare la complessità dell’immagine, aggiungendo un particolare identificativo, cioè le ciglia: spesso, infatti, in assenza di questo particolare veniva discriminato un pallone da rugby.
Un’altra strategia importante da sottolineare è stata adottata nella riproduzione del disegno. Abbiamo riscontrato notevoli difficoltà nel riprodurre il disegno da parte non solo dei soggetti con disabilità visiva, ma anche da parte dei bambini piccoli. Abbiamo fornito loro delle stecchette geometriche colorate di diverse misure, per permettere una più agevole ricostruzione della figura percepita tattilmente.

La somministrazione dello strumento è stata fatta su tre adolescenti, Lisa e Mirko (non vedenti) e Shruthi (ipovedente grave), tutti con disabilità visiva dalla nascita.

Mirko: fino all’età di undici anni non è stato seguito in modo adeguato e quindi non ha avuto la possibilità di sviluppare abilità quali analisi, organizzazione e pianificazione che gli permettessero di gestire lo spazio che gli oggetti che lo circondano.
Mirko ha iniziato questa esperienza, durata due settimane, a luglio e le difficoltà emerse hanno dimostrato la necessità di una mediazione costante e coerente soprattutto per quanto riguarda la raccolta e l’elaborazione sistematica di informazioni necessari e alla ricerca di strategie e abilità fondamentali alla conoscenza.


Shruthi: Completamente diversa è invece l’esperienza di Shruthi che attraverso il suo percorso, iniziato quando era piccola e portato avanti soprattutto dai genitori ma anche dalle persone che hanno interagito con lei a casa e a scuola, è stata in grado di affrontare questo strumento in maniera sequenziale. Ha infatti utilizzato, attraverso la mediazione, tutte le strategie in suo possesso. Con Shruthi le fasi delle funzioni cognitive (input – elaborazione – output) si sono svolte in maniera lineare ed alla fine le sue abilità e le strategie utilizzate per il riconoscimento delle varie figure geometriche erano più efficaci e più veloci.
Nonostante il problema visivo, abbiamo notato che, grazie all’ esperienza pregressa, Shruthi possiede un’immagine mentale di tutto quello che la circonda e ciò fa sembrare il suo residuo visivo di gran lunga maggiore di quanto realmente sia.
Bisogna comunque sottolineare che, l’enorme lavoro fatto in questi anni, in particolare dai genitori ha seguito, se pur spesso in maniera intuitiva, il metodo Feuerstein.



Lisa: Anche Lisa, fin dalla scuola materna è stata seguita da un mediatore alla comunicazione che le ha fornito strategie strumenti per il suo sviluppo sia cognitivo che percettivo. La mediazione volta alla ricerca di informazioni, al confronto e all’elaborazione di più informazioni contemporaneamente, è stata comunque importante per permetterle di discriminare e riconoscere le figure geometriche, ma soprattutto per il superamento delle difficoltà incontrate e l’interiorizzazione di quanto è stato sperimentato.
Attraverso la mediazione, Lisa ha dimostrato di essere in grado di creare bridging con oggetti e situazioni della vita quotidiana, di utilizzare l’esperienza precedente per riconoscere e interiorizzare con maggiore precisione anche le figure più complesse. Nel percorso con il Tri-channel ha usato un linguaggio sempre più specifico e preciso.

Abbiamo utilizzato il Tri-channel anche con un gruppo di bambini di età compresa tra i 4 e i 7 anni, dei quali due, Federica e Riccardo, con disabilità visiva.
Federica: Federica è terzogenita di tre figli, ha cinque anni e fino all’età di tre anni ha avuto una vista normale. A seguito di un intervento chirurgico in zona occipitale, ha parzialmente perso la vista. Una recidiva importante le ha causato una successiva riduzione del visus, provocandole, tra le altre cose, scosse di nistagmo importanti.
Al termine della convalescenza che ha seguito il primo intervento, la bambina è stata affiancata da un mediatore alla comunicazione, formato Feuerstein, che ha tarato tutto il proprio intervento sulla mediazione quale veicolo per consentirle strategie che compensassero in parte la minorazione visiva.
Nell’utilizzo del Tri-Channel è risultato in modo evidente che la bambina era già in possesso di strategie quali l’esplorazione sistematica, un utilizzo del linguaggio preciso e puntuale, la propensione spontanea al confronto. L’unica difficoltà emersa con Federica è stata quella legata alla riproduzione grafica della figura percepita, difficoltà efficacemente risolta grazie all’uso delle stecchette geometriche.

Riccardo: Riccardo, ipovedente, ha sette anni ed è l’unico figlio di genitori molto giovani, che, vista la disabilità visiva , hanno sempre cercato di sostituirsi al figlio, soprattutto nelle azioni quotidiane, le più importanti per permettergli di crescere, di essere autonomo e di sviluppare i processi cognitivi e mentali indispensabili al raggiungimento di determinate abilità.
Il bambino ha dimostrato difficoltà per quanto concerne l’esplorazione sistematica delle informazioni, soprattutto perché tende ai verbalismi, che gli rendono problematico concentrarsi sul compito. Il visus di Riccardo, tutto sommato buono, non viene sfruttato appieno dal bambino, che tende a non prestare attenzione visiva rispetto alle azioni che svolge.
La mediazione è stata importante soprattutto in questo: inducendolo a concentrarsi e a guardare ciò che stava facendo, Riccardo ha notevolmente ridotto i tempi di discriminazione, ricostruzione e riconoscimento delle figure.
Anche nel suo caso, come per Federica, l’utilizzo delle stecchette geometriche ha permesso di verificare l’effettiva interiorizzazione della figura, senza le difficoltà che il disegno su carta avrebbe comportato.


Ci sembra di poter concludere, alla luce di quanto emerso dalla sperimentazione con il Tri-Channel, che si tratta di uno strumento fondamentale per lavorare sulle immagini mentali dei soggetti con minorazione visiva. Come sostiene Piaget, infatti, “L'intelligenza è un sistema di operazioni. L'operazione non è altro che azione: un'azione reale, ma interiorizzata, divenuta reversibile. Perché il bambino giunga a combinare delle operazioni, si tratti di operazioni numeriche o di operazioni spaziali, è necessario che abbia manipolato, è necessario che abbia agito, sperimentato non solo su disegni ma su un materiale reale, su oggetti fisici.”.

EMOZIONI
Il lavoro con lo strumento “Identifica l’emozione” del PAS Basic ci è sembrato una sfida entusiasmante, soprattutto perché in questo caso si trattava di riprodurre tattilmente non disegni ma fotografie.
Abbiamo cercato di riportare gli originali nel modo più fedele possibile, pur rispettando i criteri del disegno in rilievo. Per le fotografie, ad esempio, abbiamo utilizzato un modello di volto sempre uguale, variando soltanto l’espressione, evitando in questo modo di obbligare il non vedente a dilungarsi nell’esplorazione di particolari diversi ad ogni immagine, creando invece un disegno familiare in cui fosse possibile concentrarsi proprio sull’espressione facciale, come previsto originariamente dallo strumento.



E proprio il lavoro sulle emozioni ci ha portato, scusate il gioco di parole, l’emozione più grande: i ragazzi l’hanno scomposta nei singoli dettagli, esplorando occhi, posizione delle sopracciglia, bocca, per poi ricomporre gli stessi elementi sul proprio volto, mimando il contenuto dell’immagine appena toccata. L’impatto è stato naturalmente molto forte, sia per noi che per loro, che si sono ritrovati per la prima volta a potersi costruire un’immagine di come cambi il volto di una persona a seconda di ciò che sta provando in un determinato momento.



ORIENTAMENTO SPAZIALE





Ci è sembrato importante prendere in considerazione la possibilità d rendere fruibile al tatto anche lo strumento Orientamento Spaziale Basic. La sperimentazione è stata impostata prendendo in considerazione la copertina e le 7 pagine-stimolo dello strumento. I disegni sono stati riprodotti ed elaborati cercando di semplificare il loro contenuto per renderlo accessibile a chi “vede” attraverso il tatto. Lo scopo principale ovviamente era far acquisire nuove competenze nell’ambito dell’orientamento spaziale con conseguente arricchimento del vocabolario.
La collaborazione di Lisa e il suo entusiasmo sono stati fondamentali, perché ci hanno permesso di capire come meglio potevamo riprodurre un particolare in una determinata scenetta, ma alla fine la cosa più importante è che lei stessa aveva raggiunto, attraverso l’apprendimento mediato, un’ottima padronanza nell’orientarsi all’interno dei vari contesti, cogliendo anche i più piccoli particolari.
L’obiettivo principale è stato perciò quello di insegnare a Lisa a capire ed utilizzare correttamente posizioni nello spazio tramite il riconoscimento e il collocamento di oggetti in determinati punti delle pagine-stimolo. Abbiamo con lei collaborato per costruire e consolidare il concetto di posizione, di relazione spaziale e di orientamento, cosa che ha permesso inoltre, nel corso della somministrazione, un miglior utilizzo dei concetti e una buona gestione di se stessi all’interno dell’ambiente.


[filmato Lisa O.S.]

Lavorare con i non vedenti e le immagini è stata per noi un’enorme sfida e l’inizio di un percorso che, portato avanti con i nostri ragazzi, di sicuro ci riserverà nuove emozioni e grandi sorprese.
La possibilità di avere accesso all’immagine in modo diretto, non attraverso un racconto ma tramite la propria fruizione ed esperienza, ci sembra uno strumento di crescita importante e grande fonte di arricchimento.
Proviamo a immaginare il percorso di formazione di un bambino non vedente, guidato alla lettura delle immagini fin da piccolo: quante possibilità di arricchire il proprio bagaglio di esperienze, quanti elementi di scambio con i coetanei, quanta ricchezza!
Vogliamo quindi chiudere il nostro intervento proprio con le parole di Lisa, che ci raccontano cosa abbia significato per lei questa esperienza.
Le sue parole, nel descriverlo, saranno di certo più VERE e VIVE delle nostre.


LISA … le sue EMOZIONI

Mi è piaciuto molto collaborare a questo progetto perché mi ha dato l'opportunità di crearmi delle immagini mentali, di provare nuove sensazioni tattili e dire in prima persona cosa rappresenta l'immagine che sto toccando.
Di solito, mi faccio descrivere un'immagine da qualcuno che la vede con i propri occhi, che diventano il mezzo attraverso il quale capisco la situazione in cui mi trovo e quello che accade intorno a me.
La cosa non è così semplice, intendo dire che chi guarda l'immagine la mette a fuoco immediatamente con gli occhi, mentre io devo attuare un meccanismo più complesso: devo cioè, dopo essermela fatta descrivere, cercare di ricostruirla mentalmente secondo l'idea che ho dell'immagine stessa. Se ad esempio, mi viene detto che davanti a me c'è un albero in fiore, per raffigurarmelo devo pensare all'albero con tutti i suoi componenti radici, tronco, rami, foglie fiori; pur sapendo come è fatto un albero devo compiere un'elaborazione mentale come se costruissi un puzzle mettendo insieme i vari pezzi.
La stessa cosa accade quando mi viene descritto un quadro devo sforzarmi di ricomporre mentalmente le figure per avere un'idea chiara di cosa il quadro rappresenti e non è per niente facile.
Credo sia molto utile poter “leggere” le immagini, così non le rappresento nella mia mente utilizzando gli occhi di qualcun altro ma attraverso le mie mani.
E’ stata un'esperienza molto positiva e arricchente che mi ha aiutato a ragionare in modo diverso (sono io che descrivo e comunico agli altri quello che sento), e ad avere un approccio più diretto e immediato con la figura che analizzo.
Finalmente ho avuto modo di esprimermi ed esprimere quello che penso
, è stato molto formativo perché mi ha permesso di vedere le cose in maniera diversa.


[1] Intervento alla giornata di studio: nuove prospettive riabilitative nelle minorazioni visive e nei deficit di attenzione con iperattività. 28 ottobre 2007 Istituto don Calabria - Milano








Imparare a comunicare in assenza di linguaggio: la mediazione attraverso simboli e musica in una bambina con sindrome Cri du Chat


M. Rodocanachi, AM Sanchez, K. Toshimori
Istituto Don Calabria, Milano



L’assenza di sviluppo del linguaggio nel bambino è una caratteristica clinica di un certo numero di sindromi genetiche rare (sindrome di Angelmann, sindrome di Rett, sindrome Cri du Chat ecc…).
Quando un bambino non impara a parlareuando un bambino non impaQQ la famiglia è di fronte ad una sfida complessa: la modalità verbale infatti, arricchita dalle altre sensorialità (vista, propriocezione, olfatto, atteggiamento empatico) è parte essenziale nell’interazione tra il bambino e la madre fin dai primi mesi di vita e con la crescita e l’organizzarsi della parola la relazione verbale diventa la modalità preponderante in ogni tipo di relazione tra il bambino (soggetto di mediazione) e la persona che interagisce con lui (il mediatore). Ci rivolgiamo al bambino parlandogli, attendiamo la sua risposta, semplifichiamo il nostro linguaggio per renderlo comprensibile.
Nel modello di Feuerstein alcune funzioni cognitive contengono una componente linguistica specifica.
Input: mancanza o insufficienza di strumenti verbali recettivi che influenzano la discriminazione.
Elaborazione: mancanza di elaborazione di alcune categorie cognitive perché le nozioni verbali non fanno parte dell’inventario dell’individuo a livello recettivo o non sono disponibili a livello espressivo.
Output: mancanza o insufficienza di strumenti verbali per comunicare risposte correttamente elaborate.
E’ evidente tuttavia che tutte le funzioni cognitive, in assenza di linguaggio, possono risultare deficitarie o difficilmente valutabili. Se il bambino non possiede linguaggio il suo quoziente intellettivo viene definito basso o molto basso. In assenza di risposta verbale ci troviamo di fronte ad una barriera che ostacola la comunicazione, rende difficile valutare un apprendimento, impedisce la reciprocità di un’interazione.
Il bambino resta chiuso nel suo mondo non verbale; l’adulto gli parla, ma le parole per lui non hanno significato, oppure la comprensione è conservata, ma non è in grado di rispondere. La sensazione in cui si viene a trovare chi è privato di linguaggio verbale non è diversa da quella di un qualsiasi individuo in un paese straniero, senza interprete e con impellente bisogno di chiedere, ricevere spiegazioni, interagire…con la differenza che per il bambino questa è una condizione esistenziale che con il passare del tempo lo isola dall’interazione con i pari, impoverendo il suo ambiente e privandolo a poco a poco della voglia di comunicare. Così anche l’elaborazione di strategie comunicative alternative (mimica, disegno, gesti, indicazione ecc….) in assenza di un attento intervento di mediazione tendono a non svilupparsi e l’intenzionalità comunicativa si riduce progressivamente fino ad atrofizzarsi. Le abilità sociali si impoveriscono e possono comparire disturbi del comportamento con tratti caratteristici del disturbo autistico.
In molte sindromi genetiche con assenza di sviluppo del linguaggio vengono infatti riportati in letteratura tratti comportamenti problematici: disturbo da deficit di attenzione, iperattività, comportamenti ripetitivi con stereotipie, tratti auto o eteroaggressivi. Anche se non correlabili direttamente da tutti gli autori con le difficoltà di comunicazione, questi tratti si riducono tuttavia quando l’intervento educativo e riabilitativo riescono a fornire strategie alternative di comunicazione.
L’intervento riabilitativo ed educativo nelle sindromi genetiche rare con assenza di linguaggio è passato negli ultimi anni da un approccio di tipo logopedico classico ad un sistema centrato sulla comunicazione nel quale viene sempre più utilizzata la Comunicazione Aumentativa Alternativa. (CAA). La possibilità di puntare sulla comunicazione indipendentemente dalla quantità e qualità di linguaggio verbale presente e persino in assenza completa di qualsiasi segnale linguistico e di costruire progressivamente un sistema do comunicazione che valorizzi qualsiasi potenziale comunicativo e lo modifichi costruendo un sistema condivisibile e generalizzabile da utilizzare per comunicare (comunicatori vocali, linguaggio dei segni, simboli organizzati in tabelle di complessità variabile e compatibili con le potenzialità del soggetto) si è dimostrata una strategia vincente.
Molte persone, un tempo escluse dal diritto alla comunicazione e socialmente emarginate, hanno potuto acquisire dignità di parola, di scambio e hanno potuto avere accesso ad un’istruzione.

Il percorso comunicativo nei bambini con sindromi genetiche rare con assenza di linguaggio verbale non è tuttavia semplice: spesso si tratta di bambini definiti con grave ritardo mentale in cui i tratti comportamentali rendono complesso un intervento riabilitativo. Frequentemente la famiglia o la scuola entrano in crisi per i progressi estremamente lenti e non riescono ad investire energia nella comunicazione. E’ facile in questi casi gettare la spugna; la stessa medicina riabilitativa, sempre più centrata sulla quantificazione dei risultati, spesso non trova le risorse economiche per un intervento mirato e non riesce a coinvolgere tutti gli attori necessari al buon fine dell’intervento (i partners comunicativi vicini e lontani, in primis la famiglia e la scuola).

La storia di Maria

Raccontiamo ora la storia di una bambina, Maria, affetta dalla Sindrome Cri du Chat, malattia rara dovuta ad un’anomalia cromosomica (delezione del braccio corto del cromosoma 15).
La letteratura scientifica rileva in questa sindrome ritardo mantale grave con disturbo profondo e globale delle possibilità di apprendimento, assenza di linguaggio verbale, disorganizzazione della motricità globale e manuale. Un’importante iperattività è presente in oltre il 90% dei soggetti spesso associata a deficit attentivi. Sono molto frequenti tratti comportamentali di tipo auto o etero-aggressivo.
La storia di questa bambina e dell’intervento educativo e riabilitativo attuato ci ha invece consentito
di scoprire a poco a poco la presenza di un mondo interiore ricco e ci ha aiutato a dar voce a questo mondo facilitando ed ampliando il pensiero.

L’abbandono e l’istituzionalizzazione
M. subito dopo la nascita è stata abbandonata dalla famiglia, che di fronte alla diagnosi e alle implicazioni prognostiche prospettate dai sanitari, non si è sentita di tenerla con sé. Ha vissuto in Istituto per bambini gravemente cerebrolesi fino all’età di due anni e mezzo. Durante questo periodo non ha sviluppato alcuna tappa motoria, appariva apatica, non sorrideva, non parlava e aveva pochissima intenzionalità comunicativa. La sua posizione preferenziale era quella supina, lo sguardo nel vuoto, nessuna gestualità finalizzata.

La famiglia affidataria e il primo intervento riabilitativo ed educativo: 3 – 8 anni
Con il consenso della famiglia di origine M. viene presa in affido da una famiglia che l’aveva conosciuta svolgendo attività di volontariato presso l’Istituto. Trova così affetto, calore umano, cure individualizzate e opportunità di relazione.
Inizia un percorso riabilitativo con interventi ambulatoriali di fisioterapia, finalizzata a promuovere l’organizzazione del movimento e di logopedia classica con approccio fonologico. E’ presente un’importante ipotonia sia globale che della muscolatura facciale.
Il linguaggio verbale non emerge, la comunicazione è prevalentemente gestuale ed empatica (si fa capire nei bisogni primari dai familiari).
Viene inserita alla scuola materna e dai 7 anni alla scuola elementare con la presenza dell’insegnante di sostegno in una classe integrata. Alla scuola elementare le insegnanti cercano un modo per aiutarla a comunicare e provano ad utilizzare la lingua dei segni (LIS), insegnando anche ai compagni di scuola la comunicazione gestuale. M. apprende alcuni segni e li integra nel suo patrimonio comunicativo. Tuttavia molti non la capiscono perchè il linguaggio dei segni è poco conosciuto.

La presa in carico riabilitativa presso il nostro Istituto
All’età di 8 anni la famiglia affidataria di Maria chiede una valutazione presso il Centro di Riabilitazione dell’Istituto Don Calabria per una ridefinizione del progetto riabilitativo. Il percorso evolutivo sembra infatti statico e la famiglia affidataria chiede se si può far qualcosa di più o di diverso.
Quando viene vista per la prima volta Maria non ha linguaggio verbale, ascolta ed interagisce, comprende e risponde con i pochi segni o gesti mimici cha ha imparato o con comportamenti che esprimono i suoi desideri (attirare l’attenzione della mamma, voler uscire, prendere dei giochi). Il suo comportamento è caratterizzato tuttavia da una grande agitazione con iperattività. Prende tutti gli oggetti presenti nella stanza e li abbandona subito o li butta senza riuscire ad organizzare un gioco e senza soffermarsi su alcun oggetto in particolare. A tratti manifesta segni di aggressività. Cammina da sola con un’andatura molto instabile.
La famiglia affidataria appare molto stanca e manifesta difficoltà di relazione con Maria.
Viene proposto un progetto di Comunicazione Aumentativa Alternativa (CAA) per migliorare la qualità della sua comunicazione ed ampliare il numero dei partners comunicativi e per favorire la strutturazione di un pensiero più evoluto. L’obiettivo è quello di insegnarle a comunicare integrando le sue modalità usuali (mimica e gesti più o meno comprensibili) con un sistema comunicativo più evoluto costituito da simboli.
Al percorso di logopedia comunicativa si decide di affiancare la musicoterapia per intervenire, attraverso un setting musicale, anche sui fattori emotivi e comportamentali.
Il programma verrà svolto nelle sue fasi iniziali all’interno delle sedute di terapia logopedica, per costruire una relazione stretta tra bambina e terapista (intesa come mediatrice) attraverso un rapporto di conoscenza ed interazione affettiva che consenta di contenere l’iperattività e le difficoltà comportamentali. Dovrà essere condiviso con scuola e famiglia.


Il percorso di Comunicazione Aumentativa Alternativa (AnaMaria Sanchez)

Si stabiliscono assieme alla mamma le modalità di intervento: verrà utilizzato il linguaggio verbale da parte del mediatore e verranno accolte e rinforzate le modalità comunicative che M. possiede: uso della voce per richiamare l’attenzione e di 1-2 incerte parole, alcuni segni appresi e condivisi con la terapista e poche persone all’interno della scuola. Occorre tuttavia arricchire la comunicazione con altre modalità: con la LIS infatti M. sarebbe capita solo da persone che conoscono il linguaggio dei segni. Si pensa ad uno strumento di comunicazione di facile comprensione per tutti, con un codice universale e riconoscibile e si decide di adottare i simboli P.C.S. (Picture Communication Symbols) tramite utilizzo del BOARDMAKER, programma che contiene fino a 4000 simboli universali che possono essere stampati in differenti forme e dimensioni.
L’intervento viene condiviso con l’insegnante di sostegno. L’équipe riabilitativa si riunisce periodicamente per valutare , modificare e verificare il percorso.
L’introduzione di un percorso di musicoterapia, poco dopo l’inizio del lavoro di comunicazione, risulta molto importante per favorire una migliore adesione di M. al progetto globale. Si crea una forte interazione di scambio tra le due terapiste.
OSSERVAZIONE: condotta assieme all’ insegnante, per conoscere meglio M. e per capire i principali bisogni ed i desideri ancora non capiti da tutti e dare ai suoi desideri un significato (mediazione del significato).
Dall’osservazione emerge che:
- non sa giocare: afferra oggetti e giochi senza dare alcun significato all’atto motorio,
- è iperattiva: lasciata a sé non finalizza alcuna attività, sembra avere dei desideri e delle preferenze ma, non essendo in grado di farsi, capire si agita e sposta l’attenzione velocemente da uno stimolo all’altro; è possibile tuttavia aiutarla a controllarsi modificando il setting e dandole delle regole (modificabilità attraverso la mediazione del controllo del comportamento in un setting condiviso),
- richiede attenzione permanente e cerca affetto (reciprocità),
- vuole in ogni momento comunicare e usa tutto quello che può per farlo,
- la comprensione contestuale del linguaggio appare conservata.
A scuola inizia a riconoscere le lettere: viene fatta una valutazione psicopedagogica, in presenza della terapista CAA. Vengono rilevate potenzialità di apprendimento penalizzate del comportamento e dall’ iperattività.

INTERVENTO INIZIALE: gli elementi emersi dall’osservazione sono la base per l’intervento successivo (rinforzo, ampliamento, arricchimento di significato dei desideri e delle preferenze attraverso l’uso di foto, figure, simboli; controllo delle difficoltà di comportamento). La scuola e alla famiglia osservano il modello d’intervento approfittando di ogni opportunità per usare simboli e/o fotografie e favorendo la comunicazione sia in entrata (funzioni cognitive in input) che in uscita (funzioni cognitive in output) non solo a M., ma anche a tutti quelli che possono relazionarsi con lei. Il compito di modellare, valutare la funzionalità e insegnare l’uso della comunicazione simbolica all’ambiente micro e macrosociale fa parte dei compiti di chi conosce e applica la CAA (pur nei limiti di tempo imposti delle regole amministrative).

SETTING, STRATEGIE, RISORSE : viene privilegiata l’affettività, l’accoglienza ricca di emozioni positive rappresentate con tutte le modalità prescelte per l’intervento (verbale, lis, simboli, e/o foto). Viene fornito alla famiglia il CD per il programma PCS.
Occorre catturare l’attenzione tramite lo sguardo condiviso (intenzionalità – reciprocità), trasmettere il significato: “ TU SEI IMPORTANTE PER ME” anche al di là della sforzo che ti chiedo (trascendenza) , che viene associato a simboli diversi che rappresentano emozioni come “ti voglio bene”, “felicità”, “tristezza” …e si osserva subito che anche M. indica col dito le emozioni sul simbolo e fa capire che le piacciono tanto le foto. Le sue richieste e le sue esperienze di apprendimento all’interno della seduta vengono accolte e strutturate in un materiale concreto cartaceo raccolto per lei, un quaderno in cui le sue esperienze cognitive ed emotive vengono strutturate e possono essere utilizzate e condivise nel suo ambiente naturale al di fuori della seduta. Vengono utilizzate foto di situazioni di vita (famiglia, scuola, terapia) e si crea una sorta di diario personale che M. può utilizzare spontaneamente scegliendo le persone con cui comunicare.
A M. viene data una dignità di persona, di giovane preadolescente che ama fissare la sua vita emotiva su un diario personale.
M. non parla, ma emette un suono vocale di compiacimento unito all’espressione facciale.

SCELTA: la possibilità di scelta per una persona senza linguaggio è fondamentale per lo sviluppo della personalità. Spesso i bambini privi di parola si abituano a non scegliere, diventando passivi di fronte all’ambiente e non recettivi alla mediazione. Insegnare al bambino a scegliere è il punto di partenza per qualsiasi intervento sulla comunicazione. La terapista invita a scegliere fra 2 OGGETTI (Sostantivi) o tra due ATTIVITA’ (Azioni, Verbi) indicando oggetti che vede nella stanza per creare un momento di relazione e di scambio comunicativo: scelta tra l’uso dello xilofono e del tamburo, della palla, del computer….di fare un disegno (che viene poi firmato incollandoci sopra la sua foto dimensione tessera diventando così individuabile da tutti), di guardare dei libri per raccontare una storia…. Per ogni oggetto/attività viene creato un simbolo o fatta una foto. Di volta in volta il materiale aumenta, l’esperienza si arricchisce di significati, si sceglie l’attività attraverso l’indicazione dell’oggetto, ma anche del simbolo. M. impara molto velocemente ed inizia presto ad utilizzare da sola i simboli (mediazione di un comportamento di ricerca, di scelta e di conseguimento degli obiettivi). Durante tutta la seduta occorre tenere alta la condivisione, far scattare la curiosità verso la novità (mediazione di una disposizione positiva verso il nuovo).
Cosi entrano in gioco gli elementi di base degli apprendimenti scolastici: sostantivi, verbi, aggettivi, avverbi….e possono essere espresse emozioni e prese decisioni: “ancora, basta, mi fa schifo…”, che verranno tradotte in simboli. M. usa quello che ritiene necessario per comunicare associando la LIS ai simboli; la terapista usa entrambi i mezzi, a seconda della circostanza, ma cerca di favorire il simbolo.

IL GIOCO: saper giocare è essenziale per strutturare la personalità e per favorire lo sviluppo del pensiero. La terapista predispone il setting con giochi strutturati e simboli per favorire un’esperienza condivisa di gioco ed arricchire al tempo stesso il linguaggio simbolico e la comunicazione. M. trova nella stanza predisposto il gioco della bambola con tutti gli oggetti e i simboli corrispondenti. Viene invitata ad osservare, la terapista modella il gioco della bambola con una esagerata emotività per evocare un interesse e poco a poco anche M . entra a far parte del gioco: si gioca insieme e si comunica. M. impara a giocare, a divertirsi e vuole farsi fotografare mentre gioca.
Imparando attraverso un gioco mediato M. comunica sempre meglio, si controlla e diventa sempre più serena. Chiede un foglio sul quale mettere i simboli del gioco; vengono create tabelle a tema per i vari giochi che vengono utilizzate anche in altri contesti (generalizzazione) in particolare quando lavora con la musicoterapista. Tutti gli apprendimenti sono condivisi con la musicoterapista e la scuola.

BARRIERE AMBIENTALI, TUTTO PERDUTO?: dopo un anno di buoni risultati si verifica un cambiamento nell’ambiente: l’insegnante di sostegno cambia e la scuola non riesce più a seguire il percorso di comunicazione, contestualmente alcuni fattori stressanti famigliari mettono M. in condizione di essere meno esposta alla mediazione. M. ne risente fortemente e prova un senso d’abbandono, regredisce , non ha un punto fermo, non si sente capita, sembra che tutto quanto fatto fino ad ora sia stato cancellato… (apprendimenti non cristallizzati o blocco emotivo con regressione per una migliore comprensione del contesto?)
I simboli non utilizzati a scuola e a casa sembrano persi, resta soltanto il lavoro fatto in seduta.
Si ricomincia da capo senza perdere la speranza...ed in questo è fondamentale il sostegno dell’intera équipe e la “mediazione alle terapiste” del significato delle difficoltà ambientali.
Il rapporto tra M. e la nuova insegnante la accompagna alle sedute è estremamente conflittuale.
La bambina diventa aggressiva e l’insegnante utilizza le sedute di comunicazione per riversare il suo malessere sulla terapista, ma non riesce ad entrare in relazione con M. rendendo quasi impossibile il lavoro con la bambina. Il clima diviene molto teso e anche a scuola l’inserimento è problematico sotto il profilo comportamentale. L’intervento sembra fallito perché la scuola non regge più M.
Si prende una decisione rischiosa: lasciare fuori dalla seduta di comunicazione l’insegnante, penalizzando l’unico mezzo di contatto tra percorso educativo e riabilitativo. Si accolgono empaticamente le difficoltà interne alla famiglia e non si investe, al momento, su una condivisione pratica del percorso richiedendo la presenza dei famigliari
La logopedista osserva M. in musicoterapia e nota subito che non ha cancellato il precedente lavoro, anzi è più libera e comunicativa di prima.
Si fa una sintesi in équipe analizzando perché nelle sedute di musicoterapia funziona bene la modalità di CAA con incremento anzi dell’uso dei simboli. Ci si confronta e si riprende il percorso. L’accompagnamento da parte di una baby sitter sorridente e comunicativa è fondamentale: M. diventa nuovamente recettiva alla mediazione.
M. non aveva dunque perso gli apprendimenti, che si erano cristallizzati nella sua mente, ma il contesto sfavorevole non le consentiva di esprimerli.
Il percorso continua.

Il percorso di Musicoterapia: le difficoltà comportamentali e la scelta di utilizzare la musicoterapia come via per la mediazione del significato dei simboli (Kumiko Toshimori)

La musicoterapia è l’applicazione sistematica della musica e/o degli elementi musicali (suono, ritmo, melodia e armonia), diretta dal musicoterapeuta in un ambito terapeutico, per apportare i cambiamenti desiderati nel comportamento. Tali cambiamenti permettono all’individuo di affrontare la terapia per arrivare ad una maggiore comprensione di sè e del mondo intorno a lui, e di ottenere quindi un più adeguato adattamento alla società.
Entrare in relazione con una persona mediante interventi di musicoterapia diviene l’occasione per agire in modo diretto e immediato, poichè il suono è relazione. Il musicoterapeuta può allora indagare, scoprire, accorgersi di qualcosa che accade e che non rientra nella norma dei comportamenti conosciuti e o codificati.
Poichè il suono è la prima realtà con cui l’uomo entra in contatto, fin da quando si trova nel ventre materno, la musica si rivela essere un mezzo privilegiato per toccare le corde più intime dell’animo umano. Sostituendo il linguaggio verbale con un linguaggio più primitivo ed istintivo, la musica consente di entrare in relazione con l’altro, e ben si presta a rispondere alla necessità di dar voce e risonanza ad emozioni che non riescono ad essere espresse verbalmente. Per questo è sembrato opportuno offrire a M. l'opportunità di un percorso musicoterapeutico.

In musicoterapia si lavora sui vari livelli, ponendosi un ampio spettro di obiettivi. Al momento della presa in carico di M. gli obiettivi iniziali erano i seguenti:
- a livello affettivo-relazionale: migliorare la capacità relazionale, stimolare la capacità comunicativa tramite i canali non verbali, aiutarla ad esprimere le sue emozioni, ad elaborarle e trasformarle, migliorare la sua autostima
- a livello motorio: migliorare la sua capacità di percezione corporea, la deambulazione, il controllo motorio degli arti superiori, i movimenti fini e grossolani, contenere e dare significato al suo spazio
- a livello cognitivo: migliorare la sua capacità di attenzione e di concentrazione
- a livello sociale: migliorare la sua qualità di vita

Nel caso di M, dalla riflessione svolta in equipe è emerso come il livello più urgente su cui intervenire fosse quello affettivo, a motivo delle sue difficoltà comportamentali e relazionali.

Il percorso con M.
M aveva un equilibrio personale abbastanza buono e dei mezzi comunicativi piuttosto efficaci, ma con finalità strumentali: solo raramente toccavano il livello affettivo (ad esempio nel dialogo sonoro non c’era il “dialogo”, ma si osservava spesso un “soliloquio”). Il suo modo di comunicare dunque era tendenzialmente a senso unico, e queste “conversazioni” non mostravano grandi possibilità di sviluppo e di arricchimento. Questo limite nella gestione delle proprie emozioni è emerso con evidenza quando l’ambiente intorno a lei si è modificato in modo per lei spiacevole (fattori stressanti familiari, cambiamento dell’insegnante di sostegno...). In queste situazioni è risultato evidente il bisogno di modificare il suo modo di relazionarsi con il mondo, o, in termini di musicoterapia umanistica, di trasformare la sua mappa del mondo ed il modo di utilizzarla.

Nella prima fase del lavoro con M. la mia attenzione si è concentrata sull’ascolto empatico, la sintonizzazione e la calibrazione (matching e pacing), sul dialogo sonoro e sul ricalco nei momenti di acting out. Durante questi primi mesi si è così instaurato il rapporto e abbiamo sviluppato la relazione, ho avuto modo di conoscere la sua mappa del mondo e abbiamo iniziato a lavorare sulle emozioni, spostandoci dalla superficie e dirigendoci verso strati più profondi.
Con l’avvento del periodo “difficile” di M e il modificarsi del contesto, l’obiettivo del lavoro è stato principalmente quello di riconoscere, esprimere, affermare e trasformare la sofferenza e il disagio che stava provando. Ha acquistato molta importanza quindi il rispecchiamento empatico, che le ha consentito di riconoscere, vivere profondamente e condividere la sua rabbia, trasformando la sua mappa del mondo.
Questa trasformazione-crescita ha portato a una evoluzione nel nostro rapporto (leading reciproco) verso la novità, innescando una reazione a catena che ha portato miglioramenti ad ogni livello: controllo emotivo più elevato, maggiore flessibilità, capacità di gestire il setting, miglioramenti sul piano cognitivo e motorio.

Osservazioni sul metodo di lavoro
Alla base del mio lavoro riconosco due affermazioni fondamentali:
- nessun terapeuta può trasformare un paziente più di quanto il paziente possa trasformare sè stesso (reciprocità). Il cambiamento terapeutico è un processo di crescita e integrazione, che è il frutto di ciò che il paziente apprende e sperimenta durante il processo terapeutico
- seduta dopo seduta, io cresco insieme ai miei pazienti
Il lavoro con M. è ai miei occhi una dimostrazione assai efficace di queste due idee.
Ho sempre sentito la necessità di arricchire il mio lavoro musicoterapeutico con l’utilizzo di stimoli multisensoriali. Nel caso di M, che ha una buona capacità di comprensione e di comunicazione tramite l’uso di stimoli visivi (disegni, gesti, simboli) e che già utilizzava la Comunicazione Aumentativa Alternativa, è stato naturale concentrarmi sugli stimoli visivi ed iniziare ad utilizzare i simboli della CAA. Iniziando a dialogare con questo ausilio, è stata possibile una comprensione più ricca e profonda dell’output (caratterizzato da modalità di comunicazione egocentrica, mancanza di strumenti verbali, comportamento impulsivo e di passaggio all’atto) di M (che è l’aspetto più compromesso), il dialogo è risultato più chiaro ed efficace e di conseguenza anche l’input (M. presentava percezione vaga e insufficiente, comportamento esplorativo impulsivo, mancanza di strumenti verbali per comunicare) che M. coglieva è diventato più ricco e significativo. Molto importante è stata anche la collaborazione con la terapista di CAA, perchè ha permesso ad ognuna di noi di entrare in un setting nuovo e di osservare M. in esso, cogliendone degli aspetti inediti e arricchendo e integrando l'immagine che avevamo di lei.
A fianco del bisogno di arricchire gli stimoli e la comunicazione, vi è però anche l’esigenza di “pulizia”, di semplificazione, di eliminare gli eccessi di informazioni e di stimoli (lavoro sulle funzioni di elaborazione: distinguere i dati rilevanti, percepire l’esistenza di un problema, elaborare categorie cognitive, pianificare). Così anche con M. è stato fondamentale togliere gli oggetti superflui, posizionarla sul materasso per darle un contenimento spaziale ( lavoro in input: sistemi di riferimento per l’orientamento spaziale) e nasconderle alla vista le potenziali distrazioni che non potevo spostare: in una parola, selezionare gli stimoli utili ed eliminare quelli superflui (lavoro in elaborazione sulla capacità di distinguere dati rilevanti).
Utilizzando anche durante la seduta di musicoterapia i simboli, M ha avuto la possibilità di lavorare sul livello mnetstico, ricordando il significati dei simboli e servendosene in modo adeguato ed efficace nel setting. In questo modo ha sviluppato la capacità di maneggiare il linguaggio acquisito e ha trovato conferma di questa possibilità comunicativa in un ambito differente (lavoro sulle funzioni linguistiche in input, elaborazione ed output con modalità pittografica).
Indubbiamente la qualità di vita di M è molto migliorata: facendo ricorso alle sue risorse interiori M ha conseguito un notevole ampliamento delle sue possibilità di comunicazione, e sta imparando a relazionarsi con l'ambiente secondo un pensiero nuovo: “io sono ok, io ci riesco” (mediazione del senso di competenza e dell’autostima).


Cosa vuole dirci e come ha imparato a dirlo: i contenuti del pensiero

Il linguaggio non si è strutturato, ma pensiero e comunicazione si sono enormemente arricchiti. M. spesso appare agitata ed iperattiva, ma ciò avviene soprattutto quando vuole comunicare qualche esperienza forte della sua vita, qualche episodio che l’ha colpita e del quale vuole mettere a conoscenza i partners comunicativi con cui ha instaurato una relazione preferenziale di amicizia. Come una qualsiasi preadolescente vuole raccontare di sé, ma è anche in grado di esprimere giudizi sulle persone e di fare battute di spirito…come quando durante una seduta di musicoterapia ha interrotto il setting musicale per comunicare che l’insegnante che l’aveva accompagnata, quella con la quale non andava d’accordo (e nello sforzo comunicativo M. ha pronunciato più volte la prima sillaba del nome di questa persona), “non era tutta giusta di testa”, o quando ha voluto segnalare con un disegno e dei simboli al medico, entrato nella stanza di musicoterapia per osservare una seduta, di aver morsicato l’insegnante stessa e di aver preso una sculacciata per questo atto. Ma emerge anche una comunicazione attiva di richiesta spontanea verso estranei (richiesta del gelato al bar del centro, richiesta di poter avere una bicicletta rossa al tecnico ortopedico, visto per la prima volta, che le stava facendo provare una bicicletta ortopedica).
Dando voce ed arricchendo il pensiero i tratti di iperattività, pur essendo ancora presenti, sono attualmente molto contenibili.
I contenuti della comunicazione non verbale mettono in luce un pensiero ricco grammaticalmente (sostantivi, aggettivi, verbi, avverbi, comparativi…), utilizzato per esprimere anche concetti astratti (sentimenti, stati d’animo, giudizi sulle persone e sulle cose) ma anche per evocare ricordi belli o dolorosi e per condividerli armonizzando così maggiormente il suo mondo emotivo.

Il futuro
Il percorso futuro di M. pone alcuni interrogativi e indica un cammino ancora lungo, ma in salita.
Questi i principali quesiti:
- come strutturare degli apprendimenti?
M. non legge e non scrive, anche se ha mostrato di saper riconoscere le lettere e di avere potenzialità di apprendimento. I bambini che non acquisiscono il linguaggio sono generalmente esclusi dai percorsi classici di apprendimento pur essendovi in Italia un Legge sull’inclusione scolastica. Il GAP negli apprendimenti tra M. e la sua classe (5 elementare) è ormai estremamente elevato. Occorre pensare ad un percorso riabilitativo ed educativo individualizzato?
Il programma di arricchimento strumentale di Feuerstein con modalità tattile potrebbe essere una modalità futura di intervento e apre una strada per una sperimentazione futura e per un percorso di integrazione;
- come rendere universale la sua comunicazione?
Occorre immaginare un percorso futuro di maggiore condivisione con tutti i partners comunicativi, in primis quelli vicini (familiari, insegnanti, compagni), ma successivamente anche quelli più distanti (vicini di casa, persone che si incontrano occasionalmente, sconosciuti). Attualmente la comunicazione più evoluta avviene all’interno del setting terapeutico, specie in musicoterapia (ora: M. apprende nella seduta di logopedia e utilizza gli apprendimenti in quella di musicoterapia; in futuro: M. dovrebbe apprendere a scuola e utilizzare gli apprendimenti a casa e nella società)
- come interagire con famiglia scuola e società?
E’ forse il punto più critico: occorrono dei cambiamenti culturali nel sistema delle relazioni familiari, è necessario muoversi con delicatezza, con comprensione ed empatia interagendo con il sistema famiglia e scuola, occorre cooperare e non entrare in contrapposizione. E’ un processo lento per attuare il quale sono necessari pazienza e tenacia. Il ruolo dell’équipe riabilitativa è fondamentale per sostenere gli operatori.

Conclusioni:
Il lavoro con M. ci suggerisce alcune riflessioni:
- la comunicazione è una caratteristiche essenziale della persona umana, in assenza di comunicazione l’individuo riduce la sua forza vitale fino all’annullamento;
- se la comunicazione verbale è assente le tecniche di comunicazione non verbale da un lato (CAA) e la teoria della modificabilità strutturale cognitiva, dell’intervento di mediazione e dell’arricchimento dell’ambiente (Feuerstein) sono potenti strumenti per promuovere lo sviluppo e dare opportunità di crescita e di integrazione;
- un lavoro di approfondimento del funzionamento cognitivo dinamico (valutazione delle funzioni cognitive) con un’attenzione precisa ai criteri di mediazione, applicato ad un percorso riabilitativo che utilizza altre tecnologie, può produrre notevoli cambiamenti nel funzionamento cognitivo ed emotivo di una persona;
- il programma di arricchimento strumentale di Feuerstein (PAS) può essere un importante mezzo per promuovere lo sviluppo cognitivo anche in assenza di linguaggio verbale; la forma tattile del PAS potrebbe essere un primo approccio soprattutto in situazioni in cui il deficit di linguaggio espressivo determina difficoltà di tipo comportamentale e di attenzione.



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